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Società

LO STATO MINIMO E LA CRISI ECONOMICA

CAMILLO MASSIMO FIORI - 10/05/2013

Il neo-liberismo, tornato inspiegabilmente di moda a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si ispira al pensiero di un gruppo di economisti che elaborarono le loro teorie, con scarso successo, nel periodo tra le due guerre mondiali.

Le idee di Fredrich von Hayek, Ludwig von Mises, Joseph Schumpeter e Peter Brucker avevano come modello la situazione capitalistica dell’epoca ed erano in polemica con l’interventismo statale attuato in quel periodo nella Germania nazista e nella Russia sovietica. Essi proponevano in sostanza un’unica ricetta: tenere lo Stato fuori dalla vita economica, ma il mondo scientifico fu sempre scettico sulla attuabilità della loro proposta.

Le loro ipotesi, morte e sepolte, furono rivitalizzate, nello scorcio finale del secolo scorso, dai “Chicago boys” in quanto funzionali alla svolta politica impressa dalla Thatcher in Inghilterra e da Reagan in America. In tal modo si avverava la previsione keynesiana di cinquant’anni addietro, secondo cui sono sempre in agguato i “pazzi al potere che distillano le loro frenesie da qualche accademico del passato”.

L’obiettivo della nuova destra fu facilitato da queste remote idee ma anche dal narcisismo dei movimenti di sinistra che avevano abbracciato con entusiasmo l’ideale individualistico.

Essi in pratica hanno armato il braccio dei governanti per imprimere la svolta conservatrice, deregolando i mercati, smantellando le iniziative economiche dello Stato, privatizzando le aziende pubbliche e ridimensionando il “Welfare State”. Per invertire la rotta delle politiche economiche si argomentò che se un’impresa passava dal pubblico al privato sarebbe stata gestita meglio, con una visione di lungo periodo, in vista del profitto sperato.

La realtà e il tempo hanno invece dimostrato che la privatizzazione è di per sé insufficiente se gli investimenti vengono ridotti all’osso per guadagnare di più; i bilanci pubblici, nonostante i soldi incassati con la vendita delle imprese, sono sempre in deficit e le economie nazionali non sono andate meglio.

Il processo secolare che aveva visto lo Stato farsi carico di servizi primari per la collettività (istruzione, posta, ferrovie e trasporti, ospedali, riscossione delle tasse) sono stati affidati a rapaci profittatori che hanno contribuito ad elevare il livello della corruzione pubblica. Vent’anni fa era la classe politica italiana ad essere inquinata, adesso il contagio si è esteso alla classe dirigente della finanza, dell’imprenditoria e dell’alta burocrazia; sono spuntati i “capitani d’industria” della scalata a Telecom, i “furbetti del quartierino” a mettere le mani sulle banche, la “cricca” che monopolizzava gli appalti pubblici a suon di tangenti. I servizi pubblici ridistribuiti in subappalto a una rete di fornitori privati hanno contribuito a disaggregare lo Stato e a svuotare la società; le ricche e potenti banche di oggi, che sono virtualmente in grado di provocare il “default” dello Stato, hanno costi superiori alle vecchie Casse di Risparmio e una organizzazione internazione meno vasta ed efficiente delle antiche Banche di interesse nazionale.

Nessuna diminuzione di tasse potrà mai compensare il trasferimento, totale o parziale, degli oneri per i servizi pubblici e la protezione sociale pubblica ai singoli cittadini.

La verità è che la venerazione del privato, la santificazione del denaro, l’ammirazione incondizionata dei banchieri, degli straricchi, dei brokers hanno posto le premesse della più grave crisi economica dopo quella del 1929 dalla quale non si sa ancora come uscire.

In passato l’assolutizzazione dello Stato aveva portato al nazionalismo e la sua divinizzazione aveva cancellato lo spazio individuale; da quell’estremismo si è passati all’opposto: se i beni pubblici vengono svalutati e sostituiti da servizi privati a pagamento, non è improbabile che il diritto (il bene pubblico per eccellenza) venga sostituito dal potere.

Nel XX secolo l’esperienza condivisa dei cittadini che usufruivano i servizi dello Stato aveva contribuito alla creazione del senso di cittadinanza; se incoraggiamo la privatizzazione della vita, se insegniamo alle nuove generazioni di preoccuparsi esclusivamente dei propri interessi, non ci si deve meravigliare se i cittadini non partecipano più alla vita pubblica, la quale è importante non soltanto per incrementare il senso di responsabilità collettiva ma anche per preservare l’onestà dei governanti e per scoraggiare gli eccessi autoritari.

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