Il filo dell’amicizia legava Giulio Andreotti a monsignor Pasquale Macchi e a Renato Guttuso. Fu quel filo a condurre il divo Giulio (era già allora il divo Giulio) in terra varesina, all’inizio dell’estate ’83. Il maestro di Bagheria stava dipingendo alla Terza Cappella del Sacro Monte la “Fuga in Egitto”, colori di sgargiante spiritualità, sentimento di preghiera, immagine d’angoscia e speranza insieme. Un’opera nata tra i chiaroscuri – chi la voleva e chi no, sui resti d’un ormai scomparso fondale seicentesco del Nuvolone – e cresciuta tra l’entusiasmo. Sì, perché Varese prendeva coscienza del plasmarsi di qualcosa che andava al di là dell’opera d’un celebre pittore: tirava un’aria di rinnovamento, di gusto del fare, di fiducia nel futuro. Definirla un’aria di neorinascimentalità sarebbe eccessivo, però di neoriformismo culturale no. Ecco, Varese prendeva (riprendeva) gusto a praticare la cultura, volerle bene, investirvi talento e finanziamenti.
Quando, in quel mattino di giugno, l’arciprete Macchi, il sindaco Gibilisco e l’assessore Caminiti accompagnarono Andreotti sul cantiere dov’era in attesa Guttuso, il chiacchiericcio lungo le poche centinaia di metri dall’arco della Prima Cappella allo scenario della Terza ebbe per argomento la voglia bosina d’emanciparsi, di progredire, di diffondere un’immagine inedita di sé. Macchi credeva molto in questo export d’arte religiosa, nel turismo di pellegrinaggio che avrebbe richiamato, nel vantaggio marginale (marginale fino a un certo punto) di cui avrebbe fruito la municipalità laica.
Andreotti lodò la bellezza del luogo. Comunica, disse agl’interlocutori, una curiosa tensione spirituale. Disse proprio così: curiosa. Fedele al gusto del “low profile”, voleva far intendere attraverso un modesto aggettivo quanto fosse poco modesto il fascino della nostra montagna. Aggiunse la raccomandazione di conservare al meglio quel tesoro. Guttuso chiosò: conservarlo sì, ma arricchendolo di testimonianze. Cioè di murales che seguissero l’esempio del suo. Tutti concordarono, e difatti già si vociferava d’un possibile intervento di Salvatore Fiume in fianco alla Settima Cappella, secondo l’idea che un mix di stili fosse lo stile contemporaneo da perseguire. Insomma: c’eravamo lanciati e non volevamo fermarci.
Invece ci fermammo (ci schiantammo), neppure aiutati dall’imprevista e straordinaria visita di Papa Wojtyla nel novembre dell’84. Forse logorati – a proposito di slang andreottiano – dalla citata bellezza, così accecante da paralizzare ogni impulso creativo. Venne, dopo una mostra dedicata a Cairo, la rassegna in nome di Guttuso a Villa Mirabello, venne l’abbrivio del Premio Chiara, venne poco d’altro e poi nulla di memorabile. Nello specifico sacromontino, il ripristino della funicolare non scortato dal razionalismo viario di contorno e l’abbandono del borgo al suo destino, tra ricorrenti proteste infine cadute nella rassegnazione. Le larghe intese tra società politica, società civile e società religiosa restarono il retaggio di un’epoca breve e fulgida che non lasciò eredità d’intraprendenza. Lasciò solo rimpianti.
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