Da sabato 20 aprile la Sala Campiotti della Camera di Commercio di Varese ospita l’interessante retrospettiva Fatta per far scoccare una scintilla di Domenico De Bernardi, nel cinquantenario della scomparsa. Oltre cento opere raccontano l’itinerario pittorico dell’artista besozzese, dagli esordi nei primi anni del XX secolo al 1963. È un percorso avvincente che trasporta attraverso campi e cieli, ferrovie e cantieri, mari e strade, luoghi oggi cancellati dalla storia, che il pittore ha fissato sulla tavola, quasi avesse voluto eternare i luoghi che amava e coi quali era entrato in empatia, quasi fosse consapevole che la loro presenza era segnata, quasi avesse voluto dire ‘rappresento questo affinché… le emozioni da me provate possano far scoccare una scintilla’.
Famoso e celebrato in vita sin dalla prima esposizione nel 1911, asoli diciannove anni, Domenico De Bernardi fu presente alla Quadriennale di Roma, espose a Milano alla Permanente, alla Biennale di Venezia ebbe addirittura uno spazio personale dal 1928 al 1936. L’acquisto del dipinto intitolato Lago di Varese da parte del Re in visita alla Mostra del paesaggio di Bologna nel 1924, lo consacrò al successo e all’apprezzamento universale; durante il Ventennio espose a Barcellona, a Birmingham, a Baltimora, ad Anversa, a Bruxelles, a Budapest, a Parigi, a New York, raggiungendo fama internazionale.
Dopo la seconda guerra mondiale lavorò appartato coltivando una sensibile attenzione per i generi consueti, il paesaggio e la natura morta, sino al 1963 anno in cui si spense a Besozzo. Anche quando si ritirò a vita privata continuò ad essere amato a Varese.
Forse è perché De Bernardi è rassicurante, apre uno spiraglio in una dimensione dell’immaginario in cui ciascuno si può collocare e sentire a suo agio; forse perché c’è una sorta di affinità elettiva per cui i varesini ritrovano nei dipinti la loro terra le loro radici il loro ‘locus vitae’: il paesaggio neutro privo di figure definite identificabili, è la terra di nessuno e di ciascuno in particolare, basta lasciar parlare le emozioni e si entra a far parte della terra e del cielo di Lombardia.
È una questione di feeling: non serve scomodare astrusità per spiegare il pittore: la sua produzione ha una spontaneità una semplicità esemplari; è un autodidatta, non ha frequentato Brera o qualche altra Accademia come i grandi suoi contemporanei che sono stati allievi di autori prestigiosi, la sua cifra personale è accattivante e lo fa apprezzare e amare più di ogni altro. Nelle sue tavole e nelle sue tele propone particolari che tutti conoscono, che appartengono al vissuto: ognuno sa dove è, di chi è, come è la cascina, il viottolo la casa la marina l’albero che osserva ogni giorno e che il pittore riproduce tout court in ‘cartoline’ raffinate.
De Bernardi è un naturalista, i canoni dell’estetica aristotelica sono profondamente radicati nel suo operare; la funzione della sua arte è catartica perché si stacca dalla materia che muta, rende eterno ciò che osserva, solleva in una dimensione rassicurante, rilassante, una dimensione atemporale; non interpreta la realtà, la duplica con mano sicura e occhio poetico: arriva a dipingere lo stesso soggetto in più quadri distinti solamente da variazioni temporali notabili perché un albero è cresciuto o l’erba è stata tagliata o la luce suggerisce un vespero o un’alba, un momento diverso del giorno. Dipinge secondi i canoni della pittura lombarda naturalistica, volutamente lontana dalla sperimentazione avanguardista del primo novecento, ancorato ai modi Ottocenteschi, alle ‘piccole cose gozzaniane’ ad un gusto conservatore, talora un po’ retrò.
Gli unici tocchi di ‘modernità’ sono legati alla formazione culturale scientifica che ha ricevuto – il padre lo iscrisse ad ingegneria, facoltà che abbandonò subito- e a un’elevata dose di curiosità per tutto ciò che sa di novità che lo porta ad inserire nei suoi lavori linee elettriche, stazioni ferroviarie e cantieri navali.
La mostra, che si sposterà a Besozzo dal 18 maggio, propone oltre cento opere tipiche in cui la cifra di De Bernardi, sensibile, spontaneo e al tempo stesso raffinato interprete del paesaggio, si trova nei paesaggi verdi ordinati e ben coltivati, nei cieli sereni – mai un temporale, mai un cupo grigio autunnale, al massimo un ‘mattino d’inverno’ sotto una gradevole spruzzata di neve – nelle stradine deserte del mezzogiorno assolato, nei viottoli percorsi da viandanti frettolosi, unico cedimento alla presenza umana, avulsa quasi sempre dall’interesse dell’artista, testimoniata da piccole sagome anonime. Si avverte il dominio della natura, di una natura idilliaca che si contrappone alla realtà attuale segnata da massicci interventi di snaturamento del paesaggio rurale in nome di uno scriteriato moltiplicarsi dell’edificazione selvaggia, che fa scattare il ‘riconoscimento dei luoghi della memoria’, pochi scorci ancora presenti sul territorio, azionando un meccanismo inconscio per il quale si ama l’autore di tale operazione.
È possibile leggere i quadri come reperti archeologici che raccontano la campagna che si stendeva nella plaga besozzese, il mar Ligure o il Tirreno dell’alto litorale toscano, tracce di un passato lontano.
De Bernardi ‘cristallizza la natura nell’attimo’, la riproduce sulla tela con l’occhio del pittore, unico mediatore tra la natura e l’uomo, attento a cogliere le variazioni della luce delle stagioni degli anni: due tavole affiancate in mostra evidenziano la crescita delle piante contro l’immobilità di cascine e montagne. Trasferisce con armonia sulle tele i paesaggi e il mondo agreste, i soggetti preferiti.
Privilegia i toni tenui, utilizza una tavolozza di colori naturali rischiarati da sprazzi di luce che accennano ombre delicate mai incombenti, ritrae verdi nature, cieli azzurri appena sporcati da nuvole bianche. La sua sensibilità e la sua vena poetica si esprimono attraverso pennellate morbide continue, larghe, dense di materia pittorica che si distendono a formare il verde dei campi o il bruno del terreno, l’azzurro del cielo o il bianco delle nuvole. La luce e la morbidezza dei colori hanno una sapiente garbata semplicità che delinea i soggetti per i quali talora il Maestro utilizza il tocco aggiuntivo della matita nera; predilige le tavole che sono rettangolari, tipiche della veduta del paesaggio nel quale la base che fa da appoggio alla veduta, ha dimensioni superiori all’altezza.
Il percorso dell’esposizione si snoda in cinque zone tematiche: i paesaggi, il progresso, i viaggi, le nature morte; sono impressioni maturate nella campagna natale, vedute ferroviarie, fabbriche o cantieri navali e porti osservati durante le escursioni al mare, luoghi esotici del soggiorno nelle colonie nord-africane, paesaggi francesi legati al periodo parigino. Il racconto preciso dell’immagine, la cura del dettaglio sono una costante dell’opera del Besozzese sin dall’esordio del suo dipingere.
Notevole la serie di vedute della campagna varesina nelle diverse stagioni dell’anno, dipinte tra il 1925 e il 1950, colori predominanti l’azzurro e il verde in tutta la loro declinazione cromatica e poi il bruno il giallo l’ocra che definiscono gli elementi della terra. Il campo di grano posto all’ ingresso possiede la luminosità del paesaggio estivo: il giallo ondeggiante delle spighe di grano l’azzurro intenso del cielo rotto dal bianco di nuvole curiose e birichine. Numerose le vedute di piccole località del Varesotto, repertorio che l’artista privilegia come Ultimo sole a Besozzo o Laveno, Cerro, che si mescolano alle vedute di Venezia, di Tripoli, Parigi.
Resta fedele alla sua tecnica pittorica sino alla morte avvenuta nel 1963, senza sperimentare le novità tecniche, i nuovi registri espressivi, i nuovi linguaggi che il mondo della pittura elabora tra gli anni quaranta e sessanta.
Fatta per far scoccare una scintilla Varese, Sala Campiotti, Camera di Commercio 20 aprile -12 maggio 2013
You must be logged in to post a comment Login