Quando nel 1957 uscì sugli schermi il film “Quel treno per Yuma” (3:10 to Yuma) di Delmer Daves (nel 2007, mezzo secolo dopo, James Magold ne ha girato una seconda versione con Christian Bale e Russel Crowe), il suo principale protagonista, Glenn Ford, al secolo Gwyllin Samuel Newton Ford, originario di una cittadina canadese del Quebec e trasferitosi in giovanissima età con la famiglia in California, aveva quarantuno anni ed era uno degli attori più quotati del box office hollywoodiano.
Glenn, nella maggior parte delle sue interpretazioni, anche quelle del genere western, sapeva ben caratterizzare personaggi comuni, non straordinari ma dalla forte connotazione psicologica. Il film che aveva preceduto “Quel treno per Yuma” era stato, nel 1956, “La pistola sepolta” (The Fastest Gun Alive), di Russel Rouse, un altro western in cui la storia di un uomo eccellente tiratore ma con un passato da espiare ne condizionava la vita ordinaria e quotidiana. Ancora, dunque, un personaggio sfaccettato e travagliato. Non a caso si dice che quest’ultimo fosse uno dei film preferiti di Sergio Leone, che da lì a qualche anno avrebbe dato vita alla sequela dei cosiddetti western all’italiana, o quanto meno western non usciti direttamente dai programmi di Hollywood; tutti incentrati, come si ricorderà, su una forte psicologia e sull’ombroso carattere dei personaggi.
Anche “Quel treno per Yuma”, come lo straordinario film di cinque anni prima “Mezzogiorno di fuoco” (High Noon), di Fred Zinnemann, magistralmente interpretato da Gary Cooper (lo sceriffo Willy Kane), fu definito un “film dell’attesa”. Ma qui la storia è quella di un coraggioso contadino che si prende l’impegno di scortare un bandito sul treno diretto al penitenziario di Yuma, sapendo tuttavia che dovrà inevitabilmente combattere con la banda di complici i quali cercheranno di liberare l’amico, prima che questi salga sul convoglio. Il contadino Dan – interpretato nel film di Daves da Van Heflin – riuscirà nell’intento, grazie anche alla collaborazione del bandito Waden (Glenn Ford) con quale si instaura, se non proprio un’amicizia, un clima di reciproco rispetto. Per la fuga – dirà alla fine Waden–Ford – ci sarà tempo in un altro momento. Simpatia, si fa per dire, e reciproco rispetto si materializzano nei minuti che precedono l’arrivo del treno, così come in “Mezzogiono di fuoco”, nell’arco di una mattinata e nell’attesa di un altro treno, lo sceriffo Kane dovrà sconfiggere infine, oltreché i malvagi, la solitudine in cui l’hanno lasciato le autorità e gli (ex) amici del paese.
Anche “Quel treno per Yuma”, uno dei western mitici attorno ai quali s’è costituita una generazione di cinefili (la mia, quella dei nati negli anni Quaranta), ebbe una matrice musicale rappresentata dall’esecuzione di un motivo famoso – intitolato, appunto, “3:10 to Yuma” – cantato da un mostro sacro del Novecento, Frankie Laine (1913-2007), al secolo Francesco Paolo Lo Vecchio, lo stesso “country-western-singer” che aveva portato al successo, qualche anno prima, “High noon”, il leit-motiv di “Mezzogiorno di fuoco”; ancora, lo stesso cantante interprete di “Rawhide”, sigla musicale dei telefim dell’omonima serie di cui era stato interprete Clint Eastwood. E di nuovo, in questo modo, ci si deve collegare a Sergio Leone, sempre attento nel griffare musicalmente tutte le proprie opere cinematografiche con il maestro Ennio Moricone (“La pistola sepolta”, uno dei suoi western preferiti, come detto, era stato musicato da André Previn).
Frankie Laine, a metà degli anni Sessanta, oltre tutto, dall’alto dei suoi numerosi dischi d’oro guadagnati in carriera, non disdegnò di partecipare al Festival di Sanremo: nel 1964 cantò insieme con il nostro Bobby Solo, epigono di Elvis Presley, “Da una lacrima sul viso”, canzone simbolo dell’epoca.
Nel film “Quel treno per Yuma” Glenn Ford non interpretava in modo diretto la parte del buono, ma – come s’è visto – quella del cattivo. Un cattivo sui generis, però, che infine riesce a suscitare simpatie e connivenze. Questa sua capacità di saper colloquiare dal grande schermo con la platea fu in definitiva una delle molte qualità di Ford, se non la principale. Era l’uomo comune capace, quando richiesto, di gesta eroiche. I suoi film – nell’arco di una carriera lunga e onorevole durata più di mezzo secolo (novanta le opere in cui figura il suo nome) – hanno spesso avuto questa caratteristica: bravo, decorosissimo e per questo amato attore, e nella vita privata uomo tutto d’un pezzo, serio e perbene e sempre applaudito dal pubblico. Durante la seconda guerra mondiale Glenn non aveva “sgavignato”, ma s’era arruolato come volontario nella Marina statunitense. In seguito, durante le guerre di Corea e del Vietnam sostenne con la sua presenza i ragazzi americani in armi.
Eroe del genere western (da ricordare, oltre ai film già segnalati, anche “Il segreto del lago”, del 1951 – The Secret of Convict Lake – , di Michael Gordon, e “Cimarron”, del 1960, di Anthony Mann), Glenn Ford fu poi protagonista di film memorabili entrati nella storia del cinema. Senz’altro sono da citare: “Gilda”, del 1946, di Charles Vidor (il film che portò al successo “Amado mio”) con Rita Hayworth e “Il seme della violenza”, del 1955, di Richard Brooks: colonna sonora tutta rock and roll e, nei titoli di testa, il brano superfamoso negli Usa e anche in Italia “Rock Around the Clock”.
Dal 1991, anno in cui risale il suo ultimo film, al 30 agosto 2006, data della scomparsa, Glenn ha vissuto a Beverly Hills, insieme con Peter, anch’egli attore, unico figlio avuto dalla sua relazione con Eleanor Powell (1912-1982), la prima delle sue quattro mogli.
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