Non avrei mai immaginato di dover difendere l’operato di una giunta “rossa”, nella fattispecie quella del Comune di Bologna, per una delibera fondata su una legge del ministro Luigi Berlinguer, allora esponente di un governo di centrosinistra, fratello (o cugino, non ricordo bene) del più famoso Enrico.
Si tratta della convenzione con cui il comune di Bologna destina fondi propri ad integrare le risorse delle scuole per l’infanzia paritarie non comunali. Si tratta, in generale, di enti di diritto privato, oggi associazioni o fondazioni, una volta qualificate come IPAB (istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza) a seguito delle leggi di Crispi di fine ‘800 espropriatrici delle Opere Pie, che avevano iniziato a sopperire ai bisogni di assistenza e di educazione delle famiglie meno abbienti. In altri casi si tratta di scuole parrocchiali, gestite direttamente dall’autorità ecclesiastica locale.
Sempre però, per avere diritto al riconoscimento di “paritarie”, queste scuole devono rispettare gli standard fissati dalla legge 62/2000 (Berlinguer), che garantiscono qualità, assenza di discriminazioni di ogni genere, apertura ad ogni soggetto richiedente e riconoscono l’autonomia della proposta educativa, secondo i principi costituzionali.
A Bologna come nel resto d’Italia, accade che, a differenza delle scuole dell’infanzia statali, le paritarie, anche comunali, non sono in grado di applicare la gratuità della frequenza: quello che lo stato eroga alle paritarie, gestite dal Comune o dagli enti, è largamente insufficiente a coprire tutti i costi. Comuni ed enti richiedono una retta di frequenza. Tutti, o quasi, i Comuni italiani intervengono con fondi propri per integrare quelli statali e consentire un abbassamento della retta di frequenza a carico delle famiglie, per renderla alla portata di tutti, con ulteriori riduzioni fino alla gratuità per le famiglie in stato di necessità, secondo regole trasparenti e identiche per le comunali e le cosiddette private. Ne risulta che a Bologna il sistema integrato della scuola dell’infanzia assicura la frequenza nelle paritarie convenzionate di 1736 bambini con una spesa, comprensiva dei fondi per il diritto allo studio, di circa un milione di euro, con un esborso medio per bambino di meno di seicento euro. Occorre dire che il costo medio, per le sole spese correnti, delle comunali è di seimilanovecento euro a testa, già contenuto rispetto a quello delle statali che supera largamente i settemila euro.
È un buon affare? Secondo qualcuno no.
Il “Nuovo comitato Articolo 33” ha proposto un referendum consultivo con lo scopo di impedire al Comune l’erogazione del contributo alle scuole paritarie non comunali. Dal momento che il risultato del referendum sarebbe quello di far spendere al comune circa 11.000.000 (undicimilioni) di euro invece di uno per ottenere lo stesso servizio, senza contare i costi di struttura per nuovi locali e cose simili, devo supporre che lo scopo dei referendari non sia quello di evitare lo spreco di pubblico denaro, ma quello di impiegarne molto di più per rimediare a un altro ben più grave delitto!
Quale sarebbe questo delitto?
La trasgressione dell’articolo 33, comma 3, della Costituzione, che recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Ma occorre leggere anche il comma successivo: “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.
So bene, per lunghissima esperienza personale, che né professori di diritto costituzionale, né politici si sono mai messi d’accordo sull’interpretazione di quel “senza oneri”. Ma varranno pur qualcosa le dichiarazioni di voto dei presentatori del famoso emendamento? Leggiamole.
Corbino (liberale): “Vorrei chiarire brevemente il mio pensiero. Forse, da quello che avevo in animo di dire, il collega Gronchi avrebbe capito che le sue preoccupazioni sono infondate. Perché noi non diciamo che lo Stato non potrà mai intervenire a favore degli istituti privati, diciamo solo che nessun istituto privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello Stato. È una cosa diversa, si tratta della facoltà di dare o di non dare”.
Codignola (socialista): “Dichiaro che voteremo a favore, chiarendo ai colleghi democristiani che, con questa aggiunta, non è vero che si venga ad impedire qualsiasi aiuto dello Stato a scuole confessionali: si stabilisce solo che non esiste un diritto costituzionale a chiedere tale aiuto. Questo è bene chiarirlo” (Atti Ass. Cost. pag 3378).
A me pare chiaro che non c’è violazione della costituzione da parte della legge 62/2000 e delle sue applicazioni, comprese quella di Bologna e della quasi totalità dei Comuni italiani. Semmai vi è una parziale disapplicazione di quel “trattamento scolastico equipollente” che non può trascurare la variabile economica che continua ad escludere buona parte delle famiglie italiane da un certo tipo di scuola. E non si venga a dire che le poche risorse comunque destinate alla paritaria sono “sottratte” alla scuola statale, quando i numeri dimostrano chiaramente che, al contrario, si tratta di uno sgravio percentualmente molto importante.
Dopo aver invitato tutti a documentarsi su www.referendumbologna.it , devo dire che mi rimane una domanda: perché, dunque, ad anni e anni di distanza dalla buona legge del ministro Berlinguer, a decenni di applicazioni di buone delibere come quelle di Bologna, ci sono ancora resistenze preconcette ad un sistema scolastico pubblico, paritario e integrato?
Non lo so; mi viene in mente solo quel personaggio di “Natale in casa Cupiello” cui non piace il presepio: “Nun me piace ‘o presebbio”.
Non piace perché non piace, non c’è bisogno di una ragione.
O, forse, la ragione è un’altra. Spero solo di non dover aspettare quanto Luca Cupiello per sentire quel sì!
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