19 aprile 1943. La rivolta nel ghetto di Varsavia. La pagina più alta di un popolo, quello ebraico, schiacciato dalla violenza nazista. Durò ventisette giorni. Terminò il 16 maggio, la Resistenza fu schiacciata ma gli ebrei seppero cadere in piedi, da uomini liberi.
Mordechai Anielewicz, il ventiquattrenne comandante dell’Organizzazione Ebraica di combattimento, che aveva guidato la lotta contro gli occupanti, prima della fine, si rivolse con queste mirabili parole al compagno Cukermann: “Ti saluto mio caro. Chissà se ci incontreremo ancora. Il sogno della mia vita, la Resistenza armata degli ebrei, è ormai realizzato”.
Si era trattato proprio di questo. Cambiare atteggiamento, non accettare più supini la barbarie. Cessare di essere sterminati senza reagire. Cancellare l’impotenza.
I primi segnali di una guerra, seppure destinata alla sconfitta in nome dell’onore, si erano avvertiti nel gennaio del ’43, quando erano apparsi sul muro del ghetto, alto quattro metri, dei manifesti che dicevano: “Svegliati popolo e lotta… Che ogni madre diventi una leonessa in difesa dei suoi piccoli! Che nessun padre veda con rassegnazione la morte dei figli! Che il nemico paghi col proprio sangue la vita di ogni ebreo! Che ogni casa diventi una fortezza! Nessun ebreo deve più morire a Treblinka! Preparatevi a agire! Siate pronti!”.
Gli agnelli sacrificali divennero leoni. Il 18 gennaio ci fu il primo segnale: un gruppo di uomini armati si infiltrò in una colonna di prigionieri ebrei condotta verso la Umschlagplatz dove erano pronti i vagoni piombati per il campo di sterminio e cominciò a sparare sulle SS liberando i prigionieri mentre un secondo nucleo combattente aprì i ganci del vagone piombato liberando i deportandi.
Tre mesi dopo, il 19 aprile, quando la certezza che lo sterminio avrebbe assunto le forme di un genocidio, nel ghetto, costruito dai nazisti nell’ottobre 1940, quattrocentotre ettari in cui erano stati reclusi quattrocentocinquantamila ebrei con una densità di quattordici persone per stanza e con 184 calorie di cibo cadauno a fronte dei 2613 per tedesco, si era accesa la fiamma della rivolta.
Sin dal 1942 le deportazioni avevano assunto proporzioni enormi: trecentomila ebrei, circa seimila al giorno. Nel ghetto erano rimasti in cinquantamila. Non c’era tempo da perdere per non essere massacrati impunemente e rispondere in nome della dignità.
Ora un libro “Sepolti a Varsavia”, edito da Castelvecchi, a cura di Jacob Sloan (pp. 284, euro 22) scritto come un diario dall’ottobre 1939 da Emanuel Ringelblum, storico sociale, sionista, organizzatore di mense e assistenza, creatore degli archivi clandestini della “Oneg Shabbat” (“Delizia del Sabato” che faceva riferimento al giorno dedicato alla Riunione), sepolto in dieci bidoni del latte, sottoterra, recuperati alla fine della guerra, rievoca quella immensa pagina di storia. Si tratta di una cronaca precisa, incalzante, suddivisa in sezioni economiche, culturali e sociali, redatta con note fitte e brevi, molto intense, sulla realtà di ogni giorno. Le angherie poliziesche, l’odiosa attività della stessa polizia ebraica (la Judenrat), i cavalli di Frisia lungo gli angoli delle strade, i rastrellamenti notturni, le morti per fame, i vecchi, le donne e i bambini sui marciapiedi a chiedere l’elemosina.
Alla rivolta aveva partecipato anche Ringelblum che aveva registrato gli avvenimenti prima di essere stato arrestato e dopo essere fuggito un paio di volte per finire ucciso il 7 marzo 1944 con la moglie, il figlioletto Uri e alcuni compagni sorpresi nella Varsavia cristiana. I sogni di poter sopravvivere sino all’arrivo dei russi e degli americani erano andati dissolti. I cinquecento ragazzi dell’Organizzazione Ebraica di Combattimento e i duecentocinquanta della Zzw, sionisti revisionisti di destra, male armati (cento fucili, tre mitragliatrici leggere, un migliaio di bombe a mano, alcune mine a pressione, rudimentali bottiglie molotov), poco sostenuti dalla Resistenza polacca, avevano sfidato un esercito di duemilacinquecento uomini del comandante SS Jurgen Stroop con carri armati, cannoncini, lanciafiamme, autoblindo. Una battaglia affrontata con l’astuzia della disperazione dai resistenti nascosti nei bunker sotterranei in un vasto reticolo del tutto sconosciuto.
Il 19 aprile era avvenuto l’atto finale. In una prima fase guerra, poi guerriglia. L’ordine di Himmler era di radere al suolo l’intero ghetto. Ci fu da parte dei ragazzi un lancio di bombe. Schizzò per aria, e per la prima volta, il sangue dei nazisti che, calzando stivali di gomma per non fare rumore marciarono verso i bunker coi patrioti all’attacco, i piedi fasciati di tela, per celare a loro volta la presenza. Alcune ragazze, prima di cadere prigioniere, avevano sparato con le loro armi avvolte prima nelle lenzuola. Seguì l’incendio delle abitazioni, Molti per non cadere in mano dei nazisti si gettarono dalle finestre. Alcuni combattenti soffocati dalle fiamme che ardevano in ogni dove erano usciti dai bunker affrontando il nemico a viso aperto. Ventisette giorni di lotta passati alla grande storia del mondo liberato.
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