Alla fine han dovuto ricorrere al vecchio saggio. Napolitano succede a Napolitano. Un presidente di forte identità politica che fa il bis a causa del default della politica. Curioso. Sorprendente, ma non troppo. Tristissimo, pur se con un sospiro di sollievo, vista come s’era messa la situazione. I partiti, più che denunziarla, confermano la loro incapacità. Prima di pregare Napolitano di rimanere, ottenendone un faticato sì in nome della salvezza tricolore, offrono di sé uno spettacolo miserando. Non lo dimenticheremo.
Altro che scegliere il presidente di tutti. Il presidente unitario. Il presidente pacificatore. Va esattamente al contrario, di votazione in votazione. Lotta di fazioni, accordicchi di convenienza, agguati affossatori. Nella migliore tradizione d’un Paese improbabile e inattendibile. Siamo questo e nulla meglio di questo. Ogni occasione è buona per dimostrarlo. Stavolta, poi, era ed è stata buonissima. Come lasciarsela scappare?
Abbiamo assistito al revival della rinascimentalità deteriore, quella delle congiure evergreen, che ci ha reso cupamente celebri. Il bene comune: chi se ne importa. Una prova di responsabilità: lasciamo perdere. Un sussulto di spirito nazionale: non scherziamo. Il momento è drammatico, la gente chiede una svolta, è il tempo di sotterrare antiche rancorosità? Di smetterla con le faide (con i pugnali)? Di chiudere una storia e aprirne un’altra? Certamente. E proprio perciò è più bello, più intrigante, più saporoso infischiarsene e fare il contrario di quel che si dovrebbe.
Di piega in piega (una piega più brutta dell’altra) si è arrivati a tracciare una serie d’imbarazzanti rughe sul volto trasfigurato (tragicomico) dell’Italia. Ecco in diretta televisiva -milioni d’ascolto, mattina e sera- una maschera ridicola e drammatica insieme, che ingiuria la sacralità laica del Quirinale, maggiore istituzione nazionale. Il mondo si fa beffe di noi, e la colpa non è del mondo. La colpa è nostra. Noi gli stramachiavellici. Noi gli arcifurbi. Noi gl’intelligenti che più intelligenti non si può. Ah, quanta superbia. E arroganza. E protervia.
La scelta del nuovo presidente della Repubblica doveva emendarci da colpe gravi. Della classe politica in primis. Ma non solo. Anche della società civile, che in fondo di questa classe politica è incubatrice. Invece a colpa s’è aggiunta colpa. La colpa delle colpe: la fallimentare mediocrità del segretario del Pd, il partito -la “ditta”, secondo la sua nota definizione- che era comunque arrivato primo nella competizione del 24-25 febbraio scorso. E che poi non è stato secondo a nessuno nell’infilare errori su errori. Anzi: nel perpetrare madornalità a raffica, trascinando nel gorgo della sua insipienza amici e nemici. I nemici con i quali ha tentato un’equivoca amicalità, subito facendola scadere ad astuta (?) fregatura.
Il senso provato assistendo a un tale e indecente spettacolo è benissimo espresso da una parola: vergogna. La vergogna che dovrebbe provare chi, investito della responsabilità di rispondere all’emergenza gridata ogni giorno da un Paese allo stremo, rifiuta d’ascoltare l’appello. La vergogna che invece prova chi lo ha lanciato, e non si dà pace d’avere affidato le sue sorti a un’accozzaglia d’inaffidabili. Forse non ci meritiamo granché, e saliamo con umiltà sul patibolo dell’autocritica; ma certo ci meritiamo qualcosa (qualcuno) di diverso dallo scempio mandato in scena e in onda in questi giorni. E dai figuranti apparsi immeritatamente sulla ribalta, riducendola a una serie di stupefacenti ribaltoni.
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