Molti amici americani e non mi hanno subito telefonato preoccupati o mandato messaggi : “Non è che per caso eri anche tu a correre la Maratona di Boston”. Conoscono infatti la mia passione per la corsa e per la città di Boston. Per motivi professionali ha avuto lunghe frequentazioni con il Massachusetts e il New Hampshire. Tornavo e torno sempre volentieri a Boston, la più europea delle città americane; la città dei liberals, dei Kennedy, di Common Park, del Freedom Trail, del Boston Tea Party che segnò il primo atto di ribellione nei confronti dell’Inghilterra. Boston è la più intellettuale delle città americane con oltre cinquanta College e Università prestigiose, Harvard e il MIT su tutte. Vi si respira un’atmosfera famigliare a noi europei: quella fatta di cultura, di tolleranza e di vita tranquilla. Boston è un po’ oscurata dalla relativa vicinanza con New York City; non è infatti così affollata di turisti cosmopoliti come la Grande Mela o San Francisco, ma è indubbiamente affascinante, con tante opportunità culturali e di divertimento.
Bella per me soprattutto in autunno quando le foglie degli alberi e dei boschi s’infiammano di colori accesi e richiamano fiumi di turisti incantati.
Un anno addirittura organizzai un tour di studio con una trentina di tecnici proprio in visita ai parchi e ai boschi di Boston, in autunno; una settimana indimenticabile con l’ospitalità e la guida del Direttore dei Parchi pubblici della città. Ad onore del vero, avevo programmato quel tour, raccogliendo quasi una cinquantina d’adesioni, il 14 settembre del 2001. Il criminale attacco alle Torri Gemelle mandò il mio progetto all’aria; mi ci vollero due anni per riproporlo e attraversare l’oceano, verso Boston sulle orme dei coloni puritani inglesi che nel 1630, in fuga dalle persecuzioni della madre patria, fondarono, tra la confluenza dei fiumi Mystic e Charles, la città di Trimountain – tre colli – che in seguito divenne Boston.
Mi è sempre piaciuto andare a correre al mattino presto proprio su e giù tra le sue colline e i quartieri europei – su per Beacon Hill con le case borghesi a mattoni rossi e i lampioni in ghisa alla Mary Poppins e giù sino Back Bay lungo i parchi che costeggiano i fiumi sino all’oceano; correre in ore antelucane accompagnato dal fiume di altri runners di tutte le età e nazionalità, tutti a seguire in parte il percorso della maratona di Boston e a sognare di parteciparvi. E sì perché la maratona di Boston è un mito, è la più antica, è la più tecnica, è la più difficile. Non una corsa per tutti, buona per i “tapascioni” che si dilettano alla domenica a caracollare sulle nostre strade o nelle podistiche di strapaese. Per ottenere il pettorale – così si dice in gergo – ovverossia il numero di partecipazione alla corsa di Boston bisogna dimostrare di aver corso almeno una maratona negli ultimi sei mesi avendo ottenuto tempi minimi stabiliti per ogni categoria d’età. Tempi da atleta preparato, ad esempio per un sessantenne, come il sottoscritto, il tempo non deve essere superiore alle 3 ore e 55 minuti, al di sotto quindi del muro delle quattro ore; limite, credetemi, di tutto rispetto in rapporto all’età. Per un venticinquenne il cronometro scende di un’ora.
Una gara tosta, dunque, che prende avvio nel villaggio di Hopkinton per terminare nel cuore della città, a Copley Square con un percorso tecnico e difficile, non piatto, ma con saliscendi, incluso il temuto Heart Break Hill – la mitica collina rompi cuore – , una salita impegnativa quasi alla fine dei 42 chilometri, quando le gambe e la testa il più delle volte non ci sono più!
Avevo i tempi, l’allenamento e la voglia di parteciparvi nel 2007, quattro mesi dopo aver corso la New York Marathon ottenendo un lusinghiero risultato. Non vi andai, preferendo correre a Roma e mi è sempre rimasto il rimpianto di non averlo fatto. Perché Boston è Boston, non una corsa, ma la storia della corsa. Tra i suoi primati vi è infatti anche quello di essere la più antica; si corre infatti dal 1897, quando John Graham, responsabile della squadra olimpica statunitense che partecipò alla prima Olimpiade moderna di Atene, tornò a Boston entusiasta della storica esperienza. Da allora ogni anno, in coincidenza con Il Patriot’s Day, la Festa americana che celebra la Rivoluzione americana che ebbe inizio proprio qui, Boston si vede invasa da migliaia di runners per la sua maratona. Festa popolare e di sport, come sono tutte le maratone americane: iscritti in abbondanza, ma soprattutto lungo le strade cittadine lo spettacolo dei bostoniani che spingono con i loro incitamenti i trafelati corridori verso il traguardo.
Tristissima edizione questa, con le bombe che hanno seminato morte, insicurezza, paura; menti criminali, come purtroppo ormai la società americana sta producendo in abbondanza, hanno trasformato un evento di gioia e sport in lutto e tristezza come nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco. L’urlo di gioia dei concorrenti arrivati al traguardo finale si è strozzato in gola in un urlo di dolore e rabbia: perché? Perché colpire gente inerme, famiglie, bambini e atleti? Nel 2001 menti malate e organizzate colpirono quello che ritenevano il simbolo di uno strapotere economico e culturale; oggi è colpita una manifestazione di sport aperta a tutti.
E forse qui stanno le ragioni della pazzia che ha armato le menti criminali: colpire nella data simbolica del Patriot’s Day – giorno per eccellenza dell’orgoglio nazionalistico e dell’isolazionismo – il potere centrale e la multietnicità degli Stati Uniti. Povere menti che purtroppo, nella sconfinatezza geografica e culturale dell’America, stanno trovando sempre più terreno fertile di adesione.
Ormai si accettano quasi come normali le notizie sconvolgenti che ci arrivano d’oltreoceano: stragi nelle scuole, nei cinema, lungo le strade, esaltati che sparano e seminano terrore in tranquilli villaggi del Mid West, bombe e morti.
E nell’ipotesi di atti terroristici esterni, c’è da chiedersi come ciò possa avvenire in una Nazione che ha sempre fatto della sicurezza e del controllo preventivo le parole d’ordine dell’incolumità collettiva. Come è possibile permettere, ospitare, istruire cittadini sospetti, magari lì residenti da anni, senza che nessuno li controlli o si insospettisca. Questo è normale che avvenga in luoghi in cui regna la solitudine e dove la conoscenza e la solidarietà reciproca sono valori minori.
Che ci sia forse qualcosa di sbagliato nel modello di società e di cultura che –ahimè – troppo a lungo ci è stato imposto come esempio da imitare ed ammirare ?
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