È indubbio che nei paesi occidentali, o per meglio dire in Europa, il welfare si rivela uno degli assi portanti dello sviluppo, mentre intanto Obama negli Usa è impegnato a potenziare misure d’assistenza ai più deboli e nel contempo a contenere in limiti accettabili il disavanzo. Si è passati dal modello mutualistico a uno basato sulla giusta tutela dei diritti dei cittadini, ma si tratta anche di un investimento in termini di progresso.
La partita del welfare è indubbiamente strategica. Da noi ostano alla vitalità del sistema comunque abusi, sprechi, inottemperanze, sperequazioni, sacche di privilegio, se ci riferiamo allo squilibrio previdenziale in un’epoca in cui il deficit di bilancio si rivela sempre più preoccupante (sì che non si può certo garantire tutto a tutti a prescindere dalle condizioni socioeconomiche e dalla diversa capacità di partecipazione contributiva). Si nota che mentre il PIL destinato in Italia alla protezione sociale risulta di poco inferiore ai valori medi dell’area euro, la ripartizione delle diverse componenti della spesa sociale è profondamente diversa rispetto agli altri paesi. Mentre la previdenza copre all’incirca il 60% del totale, altrove la media si aggira attorno al 45% , ma questo va a scapito di una politica a favore dei più svantaggiati e delle famiglie. Così la riduzione della povertà in Italia riguarda il 24,5 % della popolazione a fronte del 21,6% concernente l’area euro.
Altresì preoccupa un deficit di progettualità organica. Si contiene pesantemente la spesa senza riequilibrarla. Gli interventi sono tarati sulla spesa storica, senza una programmazione che identifichi le priorità strategiche. Manca una visione unitaria di lungo periodo. Si vede nel welfare solo un costo, non un investimento. Quanto alle forti disparità regionali i modelli di welfare si differenziano alquanto: quello lombardo-veneto è orientato al mercato, quello toscano-emiliano propende per una concezione dirigistica (lo temperano municipalismo e neocorporativismo), quello meridionale infine è dominato dal principio dell’occupazione pubblica e di trasferimenti alle famiglie in chiave d’assistenzialismo con il vizio delle clientele. Incidono pressioni politiche e sociali contingenti. Il trattamento pensionistico riservato ai dipendenti pubblici fino a poco tempo fa si sbilanciava a sfavore dei dipendenti privati.
La preoccupazione è di garantire a tutti di poter condurre effettivamente un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Costit.) sul fondamento dei diritti inviolabili di cui all’art. 2. Evitando le secche sterili dell’egualitarismo, l’uguaglianza deve essere sostanziale e bisogna anche ricorrere ad azioni volutamente disuguali per eliminare situazioni di inguaribile inferiorità socioeconomica: vanno raggiunti così prioritariamente i disuguali. Secondo una soggettivizzazione esasperata sembra che ogni bisogno sia diritto: questo provocherebbe un incremento indefinito delle erogazioni con gli inconvenienti di una visione paternalistica della mano pubblica. Il cittadino, titolare di diritti, non può essere degradato a suddito in balia di decisioni politiche e burocratiche aleatorie od arbitrarie. E vanno riqualificati i rapporti tra gli attori del welfare (amministrazione pubblica-terzo settore).
You must be logged in to post a comment Login