A.T. ottantacinque anni, una intera vita vissuta nella sua casa di via Sacco, il cuore della città. La signora, lucidissima, ne ha viste in questi anni di tutti i colori, belli e brutti, dai carri armati tedeschi nel ’43, alla sfilata della festa partigiana il 25 aprile, all’arrivo degli Alleati, all’abbattimento della storica Scuola Magistrale e dei bagni pubblici. Poi il solito ménage. Quattro passi ai Giardini Pubblici, una passeggiatina sino in centro, l’attesa del marito al rientro dal lavoro, la cura dei figli, la quiete della sera.
Snodo fatale dell’esistenza, il passaggio mattutino dai negozietti che ora non ci sono più. Sono spariti un dopo l’altro in pochissimi anni, sostituiti da improbabili sale per massaggi, centri di cura per l’udito e la giovinezza, negozi di computer, venditori di chincaglierie, pizzerie, paninerie, bar per giovani ogni tanto fatti saltare col tritolo. Resta in via Sacco un unico simbolo del passato, il panettiere, l’ex Puricelli ora Trainini, che chiude alle 13 dopo l’ultima ondata di studenti usciti da scuola, per riaprire il mattino dopo.
Via l’ortolano Puricelli, via il macellaio, via il negozio delle lane, via (che dolore!) il baretto della signora “Anna di Brezzo di Bedero”, agognato rifugio dei giovani frequentatori della Biblioteca Civica, per un’ “ombra” di bianco il tardo pomeriggio con una fettina di “bologna” o di pancetta coppata. Se n’è andato, all’angolo della via Robbioni, ma era un tutt’uno con via Sacco, il “Veroni libraio”, al passo con la clientela più esigente, via il mitico salumiere (poco dopo la Tipografia Manfredi e la cartoleria Pin scomparse da diversi decenni) con le prodigiose mortadelle, gli scatoloni di ventresca, sgombri, mostarda in bella vista da acquistare a etti e una sterminata rassegna di formaggi.
Via Sacco, via San Martino, altre vie del centro città sono irriconoscibili, fredde, senza vita, metafora di un cambiamento che non è solo commerciale ma socio-culturale. Non ci sono più, o se nell’immaginario di qualcuno esistono ancora, non sono quelle della ottuogenaria che, se si avventura per la principale strada di Varese, trova il deserto. Il vuoto s’avverte nello sbriciolamento del tessuto urbano. La gente che si ritrovava come in un rito sempre ogni mattina, con la neve, la pioggia, il solleone, nei vari negozietti, tappe fondamentali della quotidianità, scambiava quattro chiacchiere, rinsaldava un rapporto di fratellanza considerando gli avvenimenti della vita, conosce l’asprezza della solitudine, misura il vuoto di una società perduta. Si smarrisce. Si interroga ma non trova risposte.
Lo scrittore torinese Giuseppe Culicchia in un suo recente saggio sostiene che “la prevalenza del rettilineo” segna in eterno il destino dei propri concittadini “abituati da sempre ad aggirarsi in una città quadrata” tracciata dai suoi lunghi viali alberati. Con ciò – per fare un esempio – marcando nel profondo della mentalità collettiva la differenza con i milanesi, cui la circolarità degli anelli concentrici di viabilità induce una specie di municipalismo autoreferenziale. Infatti gli storici del fenomeno urbano ci hanno insegnato che “le città sono un prodotto del tempo”. “Esse sono gli stampi in cui si sono raffreddate e solidificate le vite degli umani”, come ci ha suggerito Lewis Mumford.
Così gli angoli, gli scorci, i negozietti, i “buchi” impolverati dove il tempo non sembra essere trascorso, contribuiscono a definire l’anima di una città, determinandone il fascino e l’attrattività.
Via Sacco è un emblema del fenomeno a Varese. Sfigurata. Asettica. Gelida come una stanza d’obitorio.
Non come a Parigi (so che esagero) dove, eternamente longeva, ritrovi la Boutique des Anges, cuore dell’oggettistica “angelica” in rue Yvonne-le Tac oppure Chat-Bada, regno mondiale dei gattofili in Rue des Ecoles. Non come a Londra dove, come incrollabili monumenti, trovi i celebri tabaccai Dunhill di Davies Street o il ciabattino-calzolaio Lobb in St. James Street o lo sgabuzzino dietro Oxford Street dove si può scoprire ancora una pezza del tartan fuori catalogo perché i vecchi telati si sono usurati e nessuno é più capace o vuole ricostruirli.
La via Sacco (e altre vie massacrate di Varese) non ospitavano certo luoghi tanto celebri ma pur tuttavia avevano un’anima che pulsava. Una caratteristica. Un timbro. Quegli esercizi, piccoli o grandi che fossero, giustificavano con il loro profumo vecchiotto, con i loro rivestimenti, le loro pareti spesso in legno, la loro dignitosa esistenza.
Si è voltata pagina, di sicuro in peggio. L’olocausto della spina dorsale della storia è consumato anche in questo settore. La mattanza ha fatto il suo corso. Oggi è il trionfo dei negozi “del lusso” o di “charme”: sfilata di vetrine di mutande, reggiseni, calzature inarrivabili nelle fogge più strane da produrre un fremito nella patria dei Trolli e dei Ponzoni, sottovesti, creme, lassativi, pastiglie di caffè. Negozi che spesso hanno la durata di un “espace d’un matin” per poi scomparire come un colpo di vento inseguiti dai peggiori fantasmi e da legioni di “Fiamme Gialle”.
Il segno di una nobiltà delle nostre contrade in avanzato stato di evaporazione. Mi torna alla mente il caro Stendhal. Veniva a Varese, beato lui quando pochi si muovevano, per godere lo spettacolo della pianura lombarda dalla magica terrazza del Sacro Monte ma anche per riabbracciare la bella cappellaia di cui s’era perdutamente invaghito, con il negozio fra l’attuale Caffè Zamberletti e il demolito, da anni, “Trotti e Pertusi”. Ma erano secoli fa e viene ora da piangere.
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