Ho accettato volentieri l’invito rivoltomi da mons. Luigi Stucchi, Presidente della Fondazione Paolo VI per il Sacro Monte di Varese, di stendere una sintetica biografia di mons. Pasquale Macchi. Abitavo a poche decine di metri da casa sua, conoscevo due delle sorelle che lavoravano alla STIPEL (allora si chiamava così la società telefonica) con mia zia. Nel 1966 fui chiamato a Roma – segnalato dall’allora monsignor Pignedoli, poi Cardinale – per collaborare al “Radiogiornale” della Radio Vaticana e dal 1969 al 1980 come “vaticanista” di “Famiglia Cristiana”, accreditato alla Sala Stampa vaticana, in un periodo in cui il numero dei “varesotti” al servizio del Papa era piuttosto consistente: il Cardinale Angelo Dell’Acqua, Vicario di Roma, era di Sesto Calende; mons. Macchi, segretario particolare di Paolo VI, era di Varese; padre Giacomo Martegani, direttore della Radio Vaticana, era di Cairate e mons. Davide Bianchi, direttore dell’Opera Romana Pellegrinaggi, era di Induno Olona. Soprattutto dopo la morte di Paolo VI iniziò una regolare frequentazione tra noi a Varese: al sabato mattina alla Prima Cappella per salire al Sacro Monte, recitando il Rosario guidato da monsignor Macchi, nominato arciprete del Santuario; un paio di visite a Loreto; ma soprattutto dopo il suo ritorno nella diocesi ambrosiana, riprese la simpatica consuetudine, avviata da arciprete, dell’appuntamento domenicale all’Oratorio “Veratti” di Varese con gli antichi frequentatori dello stesso. In uno di quegli incontri, prima del Grande Giubileo del 2000, mons. Macchi mi incaricò di scrivere una sorta di guida ai pellegrini del Sacro Monte: la intitolammo In cammino sulla “Via Matris” e lui ne firmò la prefazione. Maturò anche l’idea di una storia dell’Oratorio “Veratti”; monsignor Macchi mi procurò la documentazione e, prima di morire, approvò il manoscritto, che però è ancora inedito. Mi esortò anche a scrivere su Paolo VI, ma, non volendo ricalcare quanto già detto da altri, gli chiesi di avere qualche testimonianza inedita. Avremmo dovuto incontrarci dopo Pasqua… purtroppo, la sua morte impedì di realizzare questo bel sogno. Il presente profilo biografico vuole essere un doveroso omaggio alla memoria di un sacerdote che svolse il delicato compito di segretario di un grande Pontefice come Paolo VI con esemplare dedizione, rimanendo sempre nell’ombra; di un grande Vescovo e di un grande varesino che ha lasciato un ricordo incancellabile nella sua città e nella diocesi ambrosiana, come dimostrano le numerose e qualificate testimonianze che lo riguardano.
Pubblichiamo due brani del libro “Monsignor Pasquale Macchi – Nel solco luminoso di Paolo VI” per gentile concessione dell’autore.
Alla morte di Giovanni XXIII, mons. Macchi accompagnò il suo Arcivescovo a Roma per il Conclave. In quella occasione il Cardinale Maurilio Fossati, Arcivescovo di Torino, come lo vide gli sussurrò: “Faccia preparare i bagagli da Milano per Roma: il suo Arcivescovo sarà il prossimo Papa”. Accadde proprio così: al quinto scrutinio, il 21 giugno 1963, alle 11,22 la fumata bianca annunciava che l’Arcivescovo di Milano veniva eletto Papa. Quando chiamarono il suo segretario perché lo raggiungesse, Paolo VI gli disse: “Vede cosa mi è successo? Vorrei chiederle di rimanere qui a Roma e continuare il suo lavoro di segretario. Certo le sto chiedendo di lasciare Milano e di vivere lontano dalla sua famiglia. Che dirà sua mamma? Sappia che la mia prima benedizione da Pontefice è per lei!”.
Don Pasquale accettò l’invito e fu subito ripagato con la totale fiducia del Papa, che gli affidava missioni delicate e importanti. Tra le prime persone consultate ci fu mons. Loris Capovilla, segretario di Giovanni XXIII, che ricorda: “Mons. Macchi, subito dopo l’elezione di Montini, mi disse: ‘Che cosa mi consiglia per questo mio incarico?’. Io gli risposi che non aveva bisogno di consigli, avendo già sperimentato questo genere di servizio accanto all’Arcivescovo di Milano. ‘Però – aggiunsi – non guardi in faccia a nessuno, io guardavo solo la faccia del Papa. Ho sempre cercato di fare quello che il Papa voleva da me. E questo mi ha procurato anche qualche inimicizia. Ma vedrà che Dio l’aiuterà’. Ho capito quante volte mons. Macchi si è preso sulle spalle ciò che altri dicevano del suo Superiore. Ha sempre fatto da scudo al Santo Padre”. Tra i compiti affidati a mons. Macchi c’era quello di visitare preventivamente le località scelte per i viaggi apostolici intercontinentali del Pontefice, e poi toccava a lui studiare gli itinerari, organizzare gli incontri ufficiali e le manifestazioni. Il 4 dicembre 1963 Paolo VI, con una dichiarazione a sorpresa che scatenò un lungo applauso tra i Padri conciliari, annunciò che si sarebbe recato in Terra Santa. Egli fu il primo Papa della storia a ripercorrere le orme di Gesù nei Luoghi Santi, dopo che Pietro se ne era allontanato per predicare il Vangelo. Là egli incontrò il Patriarca ortodosso di Costantinopoli Atenagora I, accogliendolo con un abbraccio fraterno. A preparare l’intero programma era partito tempo prima, in assoluta riservatezza, mons. Macchi insieme a mons. Jacques Martin della Segreteria di Stato. Purtroppo non fu possibile realizzare la tappa a Damasco, a cui il Papa teneva molto volendo onorare la memoria di San Paolo, per “diverse difficoltà” come raccontò poi lo stesso Macchi.
Un’altra occasione vide protagonista mons. Macchi, che salvò la vita al Pontefice. A Manila, prima tappa del lungo viaggio in Estremo Oriente, che lo impegnò dal 26 novembre al 5 dicembre 1970, il Papa appena sbarcato dall’aereo, mentre salutava le autorità civili e religiose, fu aggredito da un pittore boliviano di 35 anni, vestito da prete, che teneva in una mano un crocifisso dorato e nell’altra, nascosto da un panno, un kriss, il tipico pugnale malese a lama serpeggiante, con cui ferì Paolo VI con un colpo al collo, fortunatamente protetto dal colletto rigido, e con un altro al petto vicino al cuore. Ed ecco la testimonianza di mons. Macchi: “Da parte mia, pensando che si trattasse di un fanatico, mi precipitai su di lui con una certa violenza per immobilizzarlo e lo buttai tra le braccia della polizia, impedendogli così di infierire con altri colpi. Il Papa, dopo un primo istante di smarrimento, sorrise dolcemente. Io rivedo ancora il suo volto luminoso, dolcissimo, come di chi è felice di soffrire per Cristo e per la Chiesa, e rivedo altresì il suo sguardo su di me, velato da un leggero rimprovero per la mia irruenza. Sul momento, Paolo VI non si era accorto della gravità della situazione e del rischio che aveva corso; più tardi, presso la Nunziatura apostolica di Manila il suo medico prof. Mario Fontana gli praticò un’iniezione antitetanica che procurò un attacco di febbre”. Senza l’intervento deciso del segretario, quel pugnale avrebbe potuto uccidere.
Nel 1976 si sarebbe dovuto celebrare a Filadelfia il Congresso eucaristico internazionale, previsto per il mese di agosto, sotto la presidenza del Pontefice. Sennonché i suoi più vicini collaboratori, evidentemente d’intesa con il prof. Fontana, a causa della malferma salute (dovuta ad una grave forma di artrosi che lo tormentava da tempo) gli fecero capire che sarebbe stato opportuno non partire. Il Papa tuttavia, più che mai deciso a recarsi a Filadelfia anche se i collaboratori cercavano di demolire le sue argomentazioni, pretese che la Segreteria di Stato e mons. Macchi, ognuno per proprio conto, mettessero per iscritto le ragioni della inopportunità del viaggio. Passò del tempo e un giorno, quasi bruscamente, il Pontefice disse al suo segretario privato: “L’esposto che vi ho chiesto non me lo avete ancora dato. Se io non l’ho presto, decido da solo…”. Don Macchi lavorò fino a notte alta alla stesura del testo, dettandolo a padre Carlo Cremona, a cui lo legavano rapporti di collaborazione e di amicizia. Per Filadelfia, don Pasquale trovò una soluzione brillante: l’8 agosto, giorno della chiusura del Congresso eucaristico nella città americana, Paolo VI si sarebbe recato a Bolsena, l’antica città del miracolo eucaristico, e sincronizzando il fuso orario via satellite il Papa sarebbe apparso alla folla sul teleschermo e avrebbe pronunciato un messaggio radiotelevisivo in inglese.
La comprensibile mole degli impegni quotidiani accanto al Santo Padre non impediva a mons. Macchi di mantenere vivi i rapporti con alcuni varesini presenti a Roma. Talvolta a mezzanotte, quando anche la faticosa giornata del segretario particolare del Papa era terminata, si intratteneva con loro a casa di padre Cremona. E proprio durante quegli incontri nacque l’idea di dar vita a un club di vecchi oratoriani del “Veratti”.
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“Ed eccoci all’evento che amareggiò gli ultimi mesi di vita di Paolo VI: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro (16 marzo – 9 maggio 1978). Il 21 aprile, il Papa disse a mons. Macchi che era intenzionato a scrivere una lettera pubblica alle Brigate Rosse: a quel testo lavorò un’intera notte, riscrivendolo per ben tre volte; poi lo diede a don Pasquale perché lo sottoponesse per una lettura a mons. Casaroli, il quale fece qualche piccola osservazione. Dopo la stesura finale si accorse che, per la stanchezza, c’era un errore di grafia e anziché correggerlo a mano, disse al segretario di dettarglielo lentamente per riscrivere il testo correttamente. Come sappiamo, l’appello del Pontefice per la liberazione di Moro non fu accolto; nell’attesa di una risposta mons. Macchi rimase costantemente accanto al Papa, il quale angosciato non faceva che chiedere: “Non c’è nulla di nuovo? Ma non si può fare proprio nulla?”. E quando fu ritrovato il corpo dello statista in Via Caetani, si ritirò in cappella rimanendovi a lungo in preghiera insieme al segretario. Arriviamo all’estate 1978. Paolo VI si era trasferito nella residenza di Castel Gandolfo. Il 5 agosto, sabato, dopo aver recitato il Rosario e la Compieta, lavorò ad alcune carte che gli erano pervenute dalla Segreteria di Stato. Quindi chiese a don Pasquale di leggergli un capitolo dell’ultimo libro di Jean Guitton – Mon petit Cathéchisme (Il mio piccolo Catechismo) – e poi gli scappò una frase che allarmò il segretario: “Adesso viene la notte”. Don Macchi ottenne di poter restare nella camera del Papa, in un angolo su una poltrona, per vegliarlo se mai avesse avuto bisogno di qualcosa. E quella fu davvero una notte terribile: “Egli – scriverà don Pasquale per la biografia redatta da padre Cremona – si agitava nel letto e non riusciva a star tranquillo e io usai tutti i mezzi, anche più umili, per poterlo aiutare a star tranquillo fisicamente, ma egli mi rispondeva di non angustiarmi e mi esortava ad andare a riposare. Al mattino, dopo questa notte così turbata, ebbe un po’ di tregua e si assopì”. La domenica non celebrò la Messa, ma seguì nella cappella attigua quella detta dal segretario, che gli portò la Comunione sotto le due specie. Poi il malato entrò nuovamente in agitazione e don Pasquale gli chiese se desiderava ricevere l’Estrema Unzione; lui rispose: “Subito, subito”. Arrivò il medico che diagnosticò un edema polmonare e dal quel momento il Papa non fece che pregare: “Io cominciai – così il segretario – col Pater Noster, l’Ave Maria, la Salve Regina, il Magnificat, l’Anima Christi, in cui c’è l’invocazione ‘in hora mortis meae voca me…’ che egli ripeté con molta serenità. Poi prese a recitare il Pater Noster e fino all’ultimo istante in cui poté parlare non fece altro che ripetere Pater noster qui es in coelis… Il suo colloquio era già diretto a Dio e si spense con serenità e, al momento in cui cessò di battere il suo cuore, il suo volto si rasserenò e divenne quasi giovanile… Per me è stata davvero una grande ventura, un gran dono di Dio… assistere il Papa nella morte. Egli mi aveva sempre supplicato di due cose: avvertirlo lealmente quando le sue condizioni fisiche e psichiche non fossero state al livello del suo altissimo impegno, soprattutto aiutarlo a morire bene”.
Il libro”Monsignor Pasquale Macchi – Nel solco luminoso di Paolo VI” sarà presentato a Villa Cagnola di Gazzada mercoledì 17 aprile alle ore 18
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