Forse stanno rimettendo in piedi lo schieramento di forze che ha sostenuto il governo Monti per uscire dall’ “impasse” della mancanza di una maggioranza parlamentare. Ovviamente non si parlerà più di “governo tecnico” ma di “governo di scopo” perché la presa di distanza dall’economista della Bocconi è servito da alibi alle forze politiche per far dimenticare agli elettori che le vere responsabilità dalla crisi economica e morale in cui versa l’Italia non sono di Monti ma dei partiti che da vent’anni governano l’Italia.
Il governo tecnico, nella sua breve esistenza, ha fatto quello che era stato sino allora dimenticato, cioè governare; la situazione si è appesantita non per i provvedimenti adottati ma perché sono stati attuati parzialmente e troppo tardi. I tre decreti di Monti, che comprendono una cinquantina di provvedimenti, hanno permesso di tenere sotto controllo i conti pubblici, di realizzare un avanzo primario, al netto degli interessi debitori, tra le entrate e le uscite, di iniziare a rimborsare gli ingenti crediti dello Stato verso le aziende e, più in generale, di ottenere la fiducia dell’Europa da cui dipende in larga misura la possibilità di ottenere i prestiti, pari a un miliardo di euro al giorno, che servono per rinnovare i Buoni del Tesoro.
Raggiungere gli obiettivi non dipende soltanto dai governi ma anche da una burocrazia che è cronicamente incapace di attuare le leggi approvate dal Parlamento e dalla resistenza di poteri, lobby e consorterie che si avvalgono della copertura della politica per non rinunciare ai loro ingiustificati privilegi. La complessità degli elementi che concorrono alla “governance” del Paese sfugge però alla maggioranza dei cittadini la cui tendenza alla semplificazione costituisce uno degli ostacoli alla riforma dello Stato. Le liberalizzazioni e le riforme sono state ostacolate dai partiti che ancora pensano che il bene comune sia la sommatoria dei beni individuali o di settori per cui, inseguendo tutte le richieste si ottiene automaticamente il bene desiderabile. Non è così. Compito della politica è essenzialmente quello di stabilire delle priorità e, in tal modo, essa esercita un ruolo educativo e virtuoso che è indispensabile al progresso reale del Paese. Anche quando sono animati dalle migliori intenzioni i “semplificatori” ottengono risultati negativi: far emergere i redditi sommersi è un dovere morale ma il recupero delle tasse evase non può andare ad incrementare la spesa pubblica improduttiva perché si tratta pur sempre di ricchezza sottratta al settore privato che dovrebbe essere destinata al potenziamento dei servizi di sicurezza sociale.
Significativa è la polemica locale sugli ospedali: limitandone il numero si pensa di risparmiare, ma ciò è vero soltanto se si tratta di strutture del tutto simili, indifferenziate mentre è fin troppo evidente che un ospedale multispecializzato costa di più di uno monospecializzato e i costi vengono drasticamente abbattuti quando la struttura ospedaliera serva alla cura dei malati subacuti o in riabilitazione. La semplificazione porta alla decisione dei “tagli lineari” che sono controproducenti e impedisce di individuare i veri sprechi della sanità che sono spesso riconducibili alla nomina politica di dirigenti sanitari e amministrativi o all’errato utilizzo dei medici di base, obbligati loro malgrado a svolgere mansioni che poco hanno a che fare con la cura dei malati, la quale si gioverebbe dalla presenza di studi associati, di presidi decentrati sul territorio e di case per anziani, in una società che invecchia a cui vengono tolti anziché aggiunti servizi essenziali.
Secondo una ricerca effettuata dal “Laboratorio della società e del territorio”, un terzo degli italiani non si riconosce più nelle culture politiche esistenti; soprattutto le generazioni più giovani hanno difficoltà a riconoscersi nelle categorie politiche tradizionali; destra, sinistra, centro non rappresentano più le tipologie politiche utili per interpretare i fenomeni della società. Anche questa estraneità mina il rapporto di fiducia tra cittadinanza e politica e contribuisce alla incomprensione e alla disaffezione tra eletti ed elettori. Sta emergendo una inclinazione tendenzialmente trasversale che non è l’ antipolitica ma la richiesta di una politica nuova e diversa; la lunga e profonda crisi ha fatto emergere un desiderio di valori veri come quelli dell’onestà, della responsabilità, dell’impegno per il bene comune. Il disincanto verso una classe dirigente che dimostra uno spiccato senso dell’irrealtà esiste ma non sempre dà luogo alla rabbia e alla protesta tipici dei movimenti populisti. ma invece ad una possibile azione politica fatta da leadership dotate di una visione strategica, di senso morale e di competenze specifiche ed inoltre di associazioni politiche più aperte alla partecipazione e alle scelte dei cittadini e utili ad interpretare i fenomeni e a prefigurare gli indirizzi.
C’è insomma un sommovimento della società che non porta necessariamente al declino, al disimpegno, all’antipolitica, ma piuttosto all’impegno verso una post politica che vada oltre le interpretazioni tradizionali che risalgono ad una fase storica superata.
You must be logged in to post a comment Login