Per chi entra come malato in ospedale, dopo un primo impatto burocratico atto a meritarsi il famoso “braccialetto”, sorta di magico passepartout che consenta di accedere a tutti i servizi diagnostico-terapeutici, il primo incontro con la figura di un medico ha spesso l’aspetto di un giovane, cortese, spesso sorridente che imposta la raccolta dei dati clinici, una prima visita e racconta allo sventurato quanto a grandi linee si pensa di fare per aiutarlo a stare meglio; nasce così una sorta di imprinting, di transfert positivo, o più semplicemente un rapporto in cui questo giovane (parlo da ex paziente) diventa un punto di riferimento, una guida e un conforto per i giorni della degenza. Organizza e sorveglia le vostre giornate di paziente, collabora con i medici “strutturati” in ogni momento della cura e il suo lavoro è un motore potente per “mandare avanti” un reparto.
È lo specializzando un medico laureato che dopo un concorso, spesso affollato, ma in alcuni casi per due o tre posti solamente, accede a una Scuola di specializzazione per approfondire e impadronirsi di tutti gli aspetti di una branca medica. È un medico in formazione, come si dice oggi, che con l’ausilio di una borsa ministeriale (piuttosto scarna, non sufficiente a svincolarlo dal supporto della famiglia d’origine), dedica tutto il suo tempo e le sue energie a diventare uno specialista completo.
“Lo specializzando lavora di giorno e studia di notte” diceva un vecchio primario e qualcuno aggiungeva che “non dorme, tutt’al più riposa, non mangia si nutre, non beve si disseta”, tratteggiando bene una vita di sacrificio, ma forse dimenticando che il lavoro dovrebbe essere strutturato a costituire un percorso organico di formazione in cui vengano dati strumenti scientifici e solidissime basi per poi accedere come protagonisti al mondo del vero impiego; questo purtroppo (e stavolta parlo da medico universitario) non sempre avviene, una formazione strutturata e ordinata a volte cede il passo, invece che integrarsi, al ritmo incalzante delle attività necessarie a garantire un’assistenza di qualità, ma dovrebbe essere una priorità costante e questo giustamente lo specializzando esige. Si trova quindi talvolta nelle condizioni di “rubare” il mestiere più che impararlo, facendo a gomitate con i propri colleghi per colmare i pochi metri che lo separano dal tavolo operatorio o dal letto del malato. Si dice che anche questa fatica serva a saggiare le motivazioni e a creare determinazione, tuttavia un maggior equilibrio tra offerta formativa e spinta a farne tesoro dovrebbe talvolta essere cercato.
Il cammino, dopo cinque o sei anni, è coronato dalla tesi finale e dal titolo di specialista ma, da questo momento, quando la maturazione si vorrebbe completa, quando finalmente potrebbe confrontare quanto faticosamente acquisito con l’assunzione della responsabilità personale dell’atto medico, non più temperata dalla guida del tutor, cessa il suo contratto formativo con l’università e di conseguenza la sua convenzione assistenziale con l’ospedale che fino ad allora ha costituito il suo ambiente naturale; il neospecialista diventa un “cervello in fuga”, un “contrattista” a tempo determinato, un precario insomma, fino a quando, dopo tempi che frequentemente superano di molto l’anno, trova una sua posizione.
Lo specialista allora, forgiato più che formato da questo cammino, può iniziare a dare tutto quello di cui è capace e se ha la volontà di non dimenticare il suo percorso a ostacoli, può onorare la memoria di questo diventando a sua volta un buon formatore.
La vita dello specializzando è più composita di quanto queste poche parole abbiano cercato di mostrare, tuttavia lasciatemi dire che il loro valore come risorsa futura è immenso e va davvero tutelato e incoraggiato, ma non posso dimenticare anche che, nel presente, all’interno della vita ospedaliera rappresentano un aiuto imprescindibile per il raggiungimento di un elevato standard di cura e, per finire, costituiscono con la loro presenza, con il loro lavoro, un collante fondamentale, un ponte di dialogo e scambio tra il mondo universitario e ospedaliero spesso mestamente contrapposti; non è giusto chiedere loro questo compito, non fa parte del loro ruolo, è ben su altro che dovremmo creare un ambiente più sereno di collaborazione, ma credo corretto rilevarlo, e ringraziarli per questo, perché porta costanti ricadute positive su chi accede alle cure e su chi ha la responsabilità di impartirle.
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