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È possibile che la produzione globalizzata di polpette di carne riesca a diventare oggetto di dibattito per una città sonnacchiosa e poco incline alla discussione come Varese? Sì lo è e la vicenda, al di là dei suoi aspetti formali, sta guadagnando spazio fuori dalle cronache locali. Tutto nasce dall’autorizzazione, perfettamente in linea con lo strumento urbanistico vigente, della costruzione di un edificio per la ristorazione che accoglierà un McDonald’s. L’ubicazione è strategica: nell’arco di poche centinaia di metri ci sono tre scuole pubbliche ed una privata, lo stadio di calcio ed il palazzetto dello sport, dedicato alla pallacanestro. Insomma una zona ad alta vocazione per questo tipo di attività, direbbero gli analisti di mercato. Sembra poi che a favorire la decisione da parte della competente commissione comunale, sia stata la promessa di trenta nuovi posti di lavoro e l’opportunità di riconvertire un’area semi dismessa all’interno di una delle zone a più alta densità di servizi della città.
Fin qui sembra tutto regolare, ineccepibile, ma i problemi insorgono quando nella realizzazione dell’intervento viene coinvolta parte di un’area a prato, una delle poche superstiti in città, che un tempo faceva parte di una zona umida la quale, ghiacciando, veniva usata come pattinaggio. Da lì discende il nome di “Giazèra” tramandato fino ai giorni nostri, anche se per un periodo le persone che vi andavano a pattinare usavano la più confortevole pista in cemento ora diventata cantiere.
Il riscatto di decenni di abbandono, segnati dalla costruzione del più comodo ed affidabile palazzetto del ghiaccio, arriva ora nelle forme del massimo produttore mondiale di hamburger, modello dell’alimentazione malsana che veicola obesità e malattie cardiovascolari. Sembra una congiura delle forze del male: non solo le polpette di carne saranno vendute sul percorso che ogni giorno fanno per andare a scuola migliaia di studenti, ma in più tutto ciò avviene a spese di parte di un ambito naturale così significativo per la storia della città.
Cementificazione, consumo di suolo, attentato alla corretta alimentazione: sono queste le pietre dello scandalo della vicenda. Si annunciano manifestazioni per difendere il made in Italy, che ha inventato lo slow food proprio in contrapposizione ai produttori globali di polpette e patatine.
Sorge spontanea una domanda: quanto scandalo avrebbe prodotto la costruzione di una ipotetica pizzeria San Gennaro o ristorante specializzato in polenta e…, entrambi con ampio parcheggio su parte della superstite area verde? In altri termini, che ruolo ha la provenienza da una cultura alloctona, del tipo di ristorazione proposta, nella determinazione dell’indignazione collettiva? Non sembrano esserci dubbi sul fatto che questo aspetto sia determinante della vasta eco che la questione ha avuto. Ma allora non si può evitare di chiedersi se per caso tutto ciò non sottolinei un relazione tra la produzione di cibo ed il modello di uso del suolo prevalente nella parte del modo dove si trova la nostra città. La risposta è affermativa e normalmente essa si basa sullo spostamento in altro luogo del problema, ovvero la produzione di cibo e l’uso del suolo dalle nostre parti sono diventate questioni tra loro indipendenti. In generale si può affermare che in questa parte di pianeta la produzione ed il consumo sono diventate questioni che non hanno nessuna reciproca relazione. Quindi perché meravigliarsi se tra le merci che arrivano da ogni dove vi siano anche le polpette globalizzate che trovano in questo pezzo di Varese il modo di essere vendute, dopo che lo sono state per molti anni in un angolo del suo centro?
In conclusione la domanda vera posta dalla vicenda sembra essere: che relazione c’è tra l’hamburger, al quale deve la sua fortuna commerciale il marchio in questione, e la città in senso lato, cioè il luogo senza il quale non si sarebbe potuta realizzare la sua diffusione? Ovvia la risposta: enorme. Senza l’ambiente urbano ed il suo essere per definizione deserto alimentare e sede naturale dell’economia di mercato la diffusione di questo particolare produzione di cibo a basso prezzo non sarebbe stata possibile. Ed anche se marginalmente, bisognerebbe ricordare che le città sono i luoghi dove si concentra gran parte della popolazione povera del pianeta, la quale costituisce la clientela di riferimento dei fast food. Sembrerà strano ma su questo aspetto fa leva, anche nella nostra benestante città, il marchio statunitense.
Forse questo caso ci suggerisce che andrebbero utilizzati meno indignazione e più consapevolezza, soprattutto per evitare di condurre battaglie perse in partenza, come quella di fermare la costruzione del ristorante fast food senza essersi occupati prima delle condizioni che ne hanno favorito la diffusione.
Da ultimo è possibile avanzare una proposta realistica per cercare di salvare il salvabile che consiste, molto banalmente, nel vincolare a verde pubblico quello che resta dell’area naturale superstite. Cominciamo da questo piccolo passo, che almeno incontrerà il favore della popolazione del quartiere, in attesa di trovare il modo di risolvere un problema di portata più vasta, ovvero come nutrire la città senza consumare suolo.
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