La mentalità popolare diffidava sempre delle persone “istruite”, che pure di tanto in tanto dovevano essere consultate per le necessità spirituali e materiali. Si è detto molto sull’argomento, mettendo in evidenza il fatto che, storicamente parlando, l’istruzione, il sapere nelle sue varie forme, è stato spesso usato in modo poco democratico e cioè non come strumento di liberazione, ma come strumento di dominio e di consolidamento del potere. Non è questo il luogo per discuterne ulteriormente. Se mai vale la pena di aggiungere constatazioni minori, basate sul fatto che ad accedere all’istruzione, in passato, erano in pochi e quei pochi, soprattutto se provenienti dai ceti popolari, erano sottoposti a durissima selezione. Inoltre era diffusa l’idea che la via degli studi fosse la soluzione per il giovane cagionevole di salute: “Te che sei mingherlino e malaticcio ti faremo studiare…”. Nel mondo popolare è sempre stato diffuso l’ammirato apprezzamento per la forza fisica, che almeno è quello che è e non nasconde tranelli come la parola ingannevole della gente istruita, la quale fin troppo spesso si comportava da balabiótt.
E tra i balabiótt, quelli più temibili erano gli avvocati, che nel passato (ma in fondo anche oggi) sembravano aver studiato apposta per far perdere le cause alla gente semplice. La quale, non a caso, ripeteva spesso che “L’è méi un ratt in bóca a n gatt, che un óm in man a un avucatt”. L’idea che un topo in bocca al gatto stia meglio di un cristiano che si affida a un avvocato può sembrare, e certo è, un luogo comune, sia pure nobilitato, com’è noto, da uno scrittore come Manzoni. Quando però si fa esperienza diretta di cause e tribunali, si può finire col credere che la saggezza popolare raramente sbagli. La maggior parte della gente pensa che per vincere una causa in tribunale basti aver ragione. Non è quasi mai così. Ricordo di aver letto, nell’anticamera di un avvocato abilissimo, una specie di decalogo di condizioni indispensabili per vincere una causa, dettate in dialetto veneziano. L’ultima, ma proprio solo l’ultima, era “aver ragione”. Quando si comincia a capire che l’universo logico giuridico non corrisponde all’universo logico della normale quotidianità, il disagio è grande. Disagio che alcuni già avvertono molto prima di arrivare in tribunale: nello studio dell’avvocato, ad esempio.
In famiglia, quando si voleva evocare una situazione di disagio, si ripeteva una frase del Baj, che spesso raccontava di quando con altri due suoi amici ebbe a che fare con un avvocato modello “Azzeccagarbugli”, appunto. Il quale, una volta che li ebbe davanti nel suo studio li invitò ad accomodarsi. “Ma come? – diceva il Baj – A gh’eran dó cadrégh e trii cüü (C’erano due sedie e tre sederi)”. Lo diceva col suono poco morbido del dialetto.
Tronco e liquidante.
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