L’avevo perso di vista da qualche tempo: non era più in fila alla mensa di via Luini quando, con una gentilezza disarmante, raccontava il sogno di portare nel nostro Paese la sua famiglia.
Era stato con noi anche durante alcuni cenoni di fine anno a Giubiano e, nel corso della rituale tombola che regala premi utili, almeno uno per ogni partecipante, sperava di vincere qualcosa per la sua bambina e sua moglie. Non chiedeva per sé, con l’onesta tenacia e la semplice dolcezza che, nonostante la fatica e le tante rinunce, sempre hanno caratterizzato il suo essere cittadino straniero dell’est Europa arrivato in città.
Un ragazzo giovane, dagli occhi vivaci, per quanto sempre un po’ velati dalla paura di non farcela a riunirsi alla sua famiglia. Lentamente aveva raggranellato piccoli risparmi per acquistare un biglietto con destinazione Roma: sarebbe servito per recarsi nella capitale, appena possibile, per sbrigare i documenti necessari al ricongiungimento della nucleo familiare.
Poi, almeno da dopo l’estate, non era più nel folto numero degli ospiti alla mensa serale, né mi è capitato di incontrarlo, come a volte accade, grazie alla casualità del percorrere una stessa strada o salire su uno stesso autobus.
L’ho rivisto invece domenica scorsa, durante il concerto cittadino che celebrava l’Unità d’Italia.
Un lungo abbraccio e un veloce amarcord sono bastati a riannodare il filo di quei rapporti umani semplici che nascono spontaneamente con tanti di coloro che si rivolgono alla mensa: con naturalezza si entra in una regolarità di incontro che favorisce rispetto reciproco, solidarietà e gratitudine, qualche racconto di vita. Poche parole sono quindi bastate a confermare la sua felicità di essere ora qui con la famiglia e di riuscire a farcela in maniera autonoma al sostentamento.
Una bella storia di speranza e di amore, di coraggio e di volontà, che si leggeva nel sorriso con cui il giovane sintetizzava in un italiano discretamente fluido il cammino degli ultimi mesi.
Una bella storia che raccontava desiderio e capacità di integrazione, mentre serenamente mi diceva di essere inserito in una comunità religiosa assieme ad amici varesini orgogliosi della sua presenza e del suo contributo.
Una bella storia espressa nel sorriso spontaneo con cui rispondeva ad alcune battute di spirito nel nostro dialetto, ascoltate in un dialogo con alcuni “autoctoni” al nostro fianco. E all’istintivo gesto di scusarmi per avere usato una lingua forse sconosciuta, mi ha risposto tranquillamente di riuscire a capirla.
Una bella storia fatta del dignitoso omaggio alla nostra Patria. Lui era lì, alla sala Montanari ad ascoltare il bellissimo concerto vocale e strumentale di giovani musicisti. Questa terra, luogo della speranza per tanti stranieri, è già seconda patria nel suo cuore e nei suoi desideri se una domenica insolitamente fredda e nevosa di marzo era con altri amici varesini a celebrare la nostra memoria collettiva.
Un gesto intenso di significato che ha fatto da contrasto con la assenza, a eccezione del signor prefetto, delle autorità cittadine e degli amministratori.
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