Potere è avere la facoltà, il diritto, il permesso, avere la possibilità concreta di fare qualche cosa.
Nelle ultime settimane si parla molto di potere, di potere acquisito, di potere democratico, di poteri da assumere con il consenso delle persone, ma quasi mai si parla dei motivi che porterebbero qualcuno ad assumere il potere. Quando se ne parla lo si fa sempre in chiave negativa, intesa come sete di potere, come ambizione al potere, come corsa, lotta di conquista del potere, ma sono solamente valutazioni sull’impronta emotiva che guida il percorso che a questo porta, non valutazioni del carattere di un destino.
Si parla dei veri motivi solamente quando qualcuno rinuncia a un potere; questo senso di assenza, di rinuncia, genera una sana riflessione sui motivi della scelta che chiamano in causa le spinte o i percorsi che qualche tempo prima avevano permesso ad una persona di accedere ad una posizione. Molto spesso si riflette su una realtà della vita quando improvvisamente ci viene a mancare, ed è un segnale interessante di come le nostre giornate siano costellate di cose buone, di valori, ma spesso siamo troppo presi per accorgerci di questi e tiriamo dritto sempre occupati da obiettivi futuri, che non fondandosi sulla consapevolezza della realtà presente, quasi fuggita, come cosa indegna o insoddisfacente, si rivelano alla fine sempre poveri nel rispettare le nostre aspettative.
Che cosa è il potere allora, perché dovremmo conquistarlo, raggiungerlo, lottare per lui? Non ha senso approfondire le singole motivazioni che guidano ognuno di noi nella lotta per un potere piccolo o grande che sia, e credo sia meglio trovare un’unica parola che tutte queste comprenda. Da credente mi sento di dire che questa parola si possa trovare nella lettera ai Corinzi dove Paolo ci confida che “per grazia di Dio io sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana”. Usando parole diverse potremmo dire che diventare ciò che siamo, scoprire qual è la nostra voce, direbbe il poeta Umberto Fiori, sia il motivo fondamentale, la spinta, quasi il percorso naturale che ci conduce a trovare il nostro posto nel mondo, assumendo quindi il potere, ma il potere di poter dire o fare qualche cosa che è parte di noi e che in armonia con la nostra voce sappiamo raccontare solo noi.
Credo che questo possa essere buon punto di partenza per riflettere su cosa significhi raggiungere il potere; non penso si debba giungere a ritenere il potere un diritto naturale per alcuni, o addirittura una facoltà che necessiti di investitura divina, ma mi limiterei a considerare un processo di scavo interiore sufficiente ad approfondire i nostri singoli ruoli, che ci faccia capaci di giudicare in prima persona se di un potere, di una fiducia, di un incarico siamo veramente degni.
E quando un potere è assunto, gestito, nell’ordine, difficile non è solo tenere la posizione, ma saper affiancare gli altri nella ricerca e nella scoperta delle loro voci, del loro valore. Rinunciare a un potere, fermarsi nella scala che porta a primeggiare può voler dire allora rispettare un ordine delle cose che ci vuole in un posto e non in un altro. Le poltrone nella stanza dei bottoni sono poche, poche perché non adatte a tutti; starne fuori consapevolmente spesso è conoscersi, non significa dimostrarsi combattenti deboli o persone indecise.
L’ambizione è il desiderio ardente di raggiungere o ottenere qualche cosa, ma nel suo significato originario vuol dire anche andare intorno a qualche cosa, in modo circolare; mi pare che spesso si ambisca al potere girandogli attorno desiderandolo in modo da concentrare il nostro sguardo sul suo fascino, con un moto circolare che diventa idolatria e fa perdere lo slancio progettuale che ci farebbe essere persone consapevoli del nostro senso in un altro contesto. Il nostro mondo ci abitua all’idolatria, ce la propone come obiettivo o premio, ma spesso questa fame porta stasi, idee confuse e ricerca di compromessi frutto solamente dell’essere sordi all’ordine della propria coscienza.
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