Don Natale Motta oggi é ricordato da pochissimi, Chiesa varesina e lombarda comprese. Fu un sacerdote coraggioso nella Resistenza, umile e generoso. Coordinò l’Oscar (Organizzazione Soccorsi Cattolici Antifascisti Ricercati) con don Aurelio Giussani e don Andrea Ghetti (sfollati dal Collegio San Carlo di Milano) e don Franco Rimoldi dell’Oratorio San Francesco di Varese, salvando decine e decine di persone, ebrei e giovani in fuga verso la Svizzera per non aderire ai bandi di Salò.
Un gigante di quella “Chiesa povera”, senza ori e sfarzi inutili delle Curie intriganti, a cui spesso con le sue straordinarie, potenti, lievi poesie, si richiama il nostro collaboratore don Ernesto Mandelli, infaticabile e saggio cappellano del “Molina”. Don Natale fece dell’altro, molto altro, in silenzio, schivo, puntuale.
Giunto a Varese nel 1938, appena celebrata la prima Messa in quella Brianza che nel 1910 a Cavenago gli aveva dato i natali (era cresciuto allo “Stalon”, il grande cortile del paese da famiglia profondamente cristiana), don Motta, cattedra di religione al Classico Cairoli nel 1939, un appartamentino in piazza Canonichetta al numero 7, due sorelle Antonia e Rosa sempre con lui, seppe muoversi con abilità anche fra le fila del fascismo della RSI, il più feroce e cialtronesco, contribuendo a prevenire azioni militari contro le sorgenti formazioni partigiane. Sentiva e sapeva provvedere con equilibrio e tatto, il sorriso sempre sulla labbra anche nelle peggiori circostanze.
Lo conobbi nella sua vecchiaia (morì nel 1992 a 82 anni), isolato e dimenticato. Viveva in un modesto appartamento in via Vetera 9, in un palazzo buio, al terzo piano (ora ha sede il Monte dei Paschi) con le sorelle.
Stavo studiando il periodo bellico, don Motta poteva essermi di prezioso aiuto. Così fu. Sapeva molto e ricordava tutto. Mi fu vicino anche perché mi legò a lui l’attività medica di mio zio Emilio Pisoni, tisiologo, radiologo e direttore dell’Ospedale “Filippo Del Ponte” al quale era molto affezionato.
Qualche anno fa don Luigi Del Torchio, con la sigla D.D.T., pubblicò le sue “Memorie” e il suo “Diario”, un tributo doveroso a quel prete dalla tonaca spesso lisa come capita ai sacerdoti di frontiera e dallo sguardo nobile e fiero. Due volumi in vendita da Eligio Pontiggia nella sezione “Storia locale”, a sinistra del posto-cassa, oggi preziosi e introvabili. Il curatore dopo un’appassionata prefazione aveva rivelato in ogni piega la vita dell’amico, conosciuto qualche anno prima e a cui aveva aperto il cuore.
Don Motta aveva la sua abitazione a pochi metri da piazza Battistero dove sorgeva (ora non c’è più) la caserma “Ettore Muti” della Sezione “Ordine Pubblico” (OP) della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), un covo da cui i repubblichini muovevano, assieme a Villa Triste di via Dante 2, per le loro investigazioni. Malgrado il pericolo continuo di essere scoperto nel suo via vai in compagnia di qualche fuggiasco, don Motta non manifestò mai incertezze. Si muoveva su un terreno minato ma a suo agio, sicuro nella fede in Dio e negli amici fidati. Giocò con tempismo la sua personale partita con la Storia, ben sapendo, a partire da metà del ’44, che la sua persona aveva destato attenzione negli uffici della polizia fascista e il suo nome era sottolineato con la riga blu.
Il 18 dicembre 1943 compì quella che può essere considerata la sua principale azione di soccorso. Qualcosa di clamoroso. Occorreva strappare da Casa San Giuseppe di monsignor Carlo Sonzini in via Griffi, Gabriele Balcone, un bambino ebreo di tre anni, “detenuto” per ordine tedesco con la madre Edvige Epstein e un’amica di famiglia Luisa Schlesinger. Il 10 dicembre il gruppetto, partito da Oronco di Varese, era stato intercettato a Luino dalla polizia e arrestato. Il passaggio dalle montagne luinesi era fallito. Siccome il carcere dei Miogni era zeppo come Villa “Concordia” (villa Zanoletti di via Solferino, sede del Comando tedesco di frontiera), i tedeschi avevano “recluso” la famiglia Balcone dalle religiose della Congregazione San Giuseppe con l’ordine che non si muovesse per nessuna ragione. Una vera prigione.
Don Motta non si scoraggiò e inventò un piano diabolico. D’accordo con un gruppetto di universitari della FUCI, diretto dall’ingegner Giulio Uccellini e formato da Mario Ossola (futuro sindaco di Varese), Francesco Moneta, Napoleone Rovera e Carlo Macchi, fratello di don Pasquale (futuro segretario di Paolo VI) “finse” che Gabriele dovesse essere trasportato d’urgenza all’Ospedale per un attacco di appendicite. Il bambino, avvolto nelle coperte, giunse in reparto dove il dottor Ambrogio Tenconi, primario chirurgo, avvisato del fatto, “finse” a sua volta di effettuare l’operazione. Qualche ora dopo, armi alla mano, gli stessi studenti, entrarono in reparto, presero Gabriele e lo portarono a casa di don Motta in piazza Canonichetta in attesa di tempi migliori. Era il 21 dicembre. Gabriele rimase in casa del sacerdote per 17 giorni, quando un viaggio in treno, studiato in ogni particolare, permise agli studenti e a una sorella di don Motta di raggiungere Milano e poi la Brianza, temporaneo rifugio del piccolo ebreo, per poi essere trasferito sino alla Liberazione a Brunate con il padre Angelo Balcone, ariano, nel frattempo liberato dai nazifascisti.
Don Motta mi raccontò che subito dopo la guerra tutta la famiglia Balcone (Edvige Epstein sopravvisse ad Auschwitz mentre l’amica, affetta da leggera zoppia, fu gassata) venne a Varese per ringraziarlo e per donargli una somma per la sua azione di carità. Don Motta ebbe modo di vedere ancora Gabriele quando dall’Australia dove era emigrato, era tornato in Italia in viaggio di nozze. “Fu una gioia – mi confidò – rivedere quel bimbo ora uomo, libero, felice. Per un servitore di Dio era il compenso massimo”.
Don Giovanni Barbareschi nel suo fondamentale “Memoria di sacerdoti ribelli per amore” edito nel 1986 per il Centro Ambrosiano di Documentazione e Studi Religiosi di Milano, un prezioso vademecum, in cui sono raccolte le schede di chi in nome del Cristo liberatore aiutò i fratelli in pericolo nella Seconda Guerra Mondiale, dedicò a don Motta alcune pagine, da cui emerge a tutto tondo la figura dell’audace ministro della Chiesa. Ci sono notizie anche curiose: nella casa di don Motta “è gelosamente custodito – scrive don Barbareschi – il materiale necessario per la fabbricazione dei documenti falsi, passaporti, carte d’identità (nda: avute da Calogero Marrone ora finalmente “Giusto fra le Nazioni”), permessi di circolazione per il coprifuoco, fogli di congedo”. E poi ancora sono segnalati per filo e per segno i tragitti preferenziali per l’espatrio, Rodero, Saltrio, Clivio, Viggiù, Ligurno, il torrente Tresa, con l’indicazione della cascine dove potersi fermare per un breve riposo, compresa la stazione ferroviaria di Malnate con la parola d’ordine “Trentadue” e la rassicurante risposta “Uguale a trentatre”.
Non finirà qui la sua incredibile storia. Dopo la Liberazione don Natale, che ho davanti a me nell’ultimo viaggio in treno da Milano a Varese, la valigia tenuta da una corda, darà aiuto a tutti, orfani e figli di fascisti e di partigiani, raccolti nella Colonia Magnaghi al Campo dei Fiori (la “Prigione senza sbarre” con i detenuti minorenni liberati sulla parola dal carcere e messi al riparo in quel luogo sino alle sentenze e all’amnistia Togliatti del giugno 1946), nella Colonia Maino di Cugliate Fabiasco e in quella di Cadegliano Viconago.
Dirà, esemplare sintesi della sua esistenza, a chiosa di questa parentesi del dopoguerra: “Non importa di chi sono figli o che cosa hanno fatto i loro padri: è carità aiutare questi bambini che ora non hanno più nessuno”.
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