Provo fastidio e disagio ogni volta – e mi tocca farlo, ahimè, almeno quattro volte al giorno – che debbo passare per Masnago a lato dello stadio comunale: è un pugno nello stomaco vedere quelle recinzioni di plastica arancione che delimitano il cantiere edile dove si dice sorgerà un nuovo McDonald’s. È un ritornare agli anni ‘ 60 quando lì, nella giazéra, si andava a pattinare in inverno o quando ci si incamminava a piedi verso il Franco Ossola per incitare il Varese in A, attraversando le paludi di via Manin tra canneti e gracidare di rane.
Ora proprio lì, nel bel prato incolto con annesso acquitrino, a lato del ristorante “La Baita”, hanno iniziato a scavare e sventrare. Ma chi mai ha dato il permesso di distruggere una delle poche aree all’interno della città dove era possibile confrontarsi con la biodiversità?
Per molti forse quell’area non era nient’altro che un prato, ovverosia una superficie abbandonata ricoperta d’erba, buona tutt’al più per giocarci o tirare quattro calci al pallone. Alcuni considerano questi “incolti” luoghi preferenziali per costruirci spazi commerciali, dimenticando che il nostro paesaggio è fatto anche di boschi, luoghi vergini, prati e… abitazioni.
I risultati di questa cecità urbanistica sono poi sotto gli occhi di tutti: città e paesi che perdono la loro identità; case, ville, villette di ogni tipo e colore, frammiste a centri commerciali, capannoni industriali e artigianali: una babele urbanistica senz’anima e identità.
C’è da inorridire alla vista delle scelte edilizie e ambientali compiute a Varese negli ultimi decenni… anche in questi ultimi vent’anni, alla faccia della dichiarata e sbandierata volontà di salvaguardare le nostre radici e il nostro territorio. Via Manin ne è un triste esempio; qui convivono palazzine, centri sportivi, plessi scolastici, rotonde, corsie preferenziali per il tram bus, capannoni industriali e attività commerciali ecc. – tutto senza respiro in un caos edilizio e viabilistico.
Il “prato incolto” che andrà a scomparire era l’ultima testimonianza di un’antica area paesaggistica, ricordo di luoghi umidi tra loro connessi e interdipendenti; quindi una zona con un’alta valenza ambientale e biologica. Un tempo erano quattro le aree umide contigue tra loro collegate: la palude della Boscaccia ad Avigno e il laghetto sito nell’area retrostante il Poligono di Tiro; entrambe le zone naturali sono oggi pressoché scomparse cedendo il passo a palazzoni, villette e capannoni artigianali. Vi era poi l’area umida di via Pista Vecchia, oggi fortemente trasformata perché convertita in parco pubblico. Ultima sopravvissuta era appunto l’area umida della Baita che oggi si va scriteriatamente a distruggere senza che nessuno dica niente o levi un grido di dolore e d’allarme.
Si sono eliminati in un sol botto un bel bosco di latifoglie con robinie, salici bianchi, ciliegi selvatici, ontani, pioppi neri e frassini e il relativo sottobosco, fatto di noccioli, salici cenerini, rosa canina e rovi che offrivano rifugio e riparo a una avifauna stanziale e migratrice di notevole interesse. Tutto perso e distrutto! Cheeseburgers al posto di pettirossi, cince allegre, lucciole e alberi!
Eppure il lasciare e preservare all’interno di una città spazi verdi naturali e vergini – come era la giazéra – dovrebbe essere assunto a standard urbanistico, quasi una necessità per i tempi moderni.
Avete mai provato a camminare in un prato? È un brulichio di vita, un microcosmo fragile e affascinante, un ecosistema dove tutto è connesso e dove qualsiasi alterazione va a discapito di un equilibrio che si è faticosamente stabilito. Già, perché un prato è molto di più che un centinaio di migliaia di fili d’erba; è un ecosistema dove tutto è collegato. Un prato incolto sono piante, erbe, insetti, alberi e arbusti, nidi e rifugi per roditori, uccelli, piccoli e grandi mammiferi, acque affioranti e profonde, fiori e api, sostanza organica e lombrichi… e che altro… vite connesse tra di loro, da tutelare e preservare. Perciò quando si distrugge un prato si distrugge un ecosistema.
Varese dovrebbe farsi garante non solo di preservare i propri giardini storici – e anche qui: o non lo fa (vedi Villa Augusta ) o lo fa male –, ma anche di tutelare gli incolti che si spingono nel centro città.
È così difficile comprendere come qualsiasi tipo di costruzione che va a cementificare – e quindi impermeabilizzare – un’area naturale, va parimenti a modificare la quantità di acqua piovana che può raggiungere la falda freatica? Non lamentiamoci dunque se in estate i nostri rubinetti rimangono a secco o se il Vellone esonda al primo acquazzone estivo. Tra le cause della penuria di acqua o delle alluvioni vi è anche la trasformazione dei prati in alberghi, capannoni e McDonald’s.
Tant’è che in Olanda – nazione certo dove l’acqua non scarseggia, ma che ne fa un uso previdente – gli standard urbanistici impongono la costruzione di costosi ma necessari serbatoi sotterranei, di eguale superficie dell’edificato, per la raccolta e la reimmissione al terreno dell’acqua piovana non più in grado di percolare nel suolo.
Mi piange il cuore a vedere queste biodiversità che scompaiono; inorridisco ogni volta che passo a Masnago e vedo le montagne di terra scavate, sventrare un prato e una palude sulla quale un tempo si pattinava. Mi chiedo: quando verrà il turno delle balze inerbite del Truno a lato di via Campigli, dei prati a Bizzozero nel Parco Sud per fare posto al nuovo carcere, della campagna di via dei Boderi o dello sconfinato “pratone” alla sommità di via Bicocca a Sant’Ambrogio?
“Eh no, non so / non so perché / perché continuano a costruire / e non lasciano l’erba / non lasciano l’erba / non lasciano l’erba/…”. Possibile sia così difficile capire?
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