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Società

IL PACIFISMO “SCAPÙMA”

FEDERICO SCHNEIDER - 01/03/2013

Negli ultimi giorni del mese scorso, sulle due maggiori testate del nostro paese, ha avuto luogo un’interessante ‘tenzone’ tra due illustri firme del nostro giornalismo, Ernesto Galli della Loggia e Eugenio Scalfari. E dato che la tenzone chiamava in causa anche Niccolò Machiavelli, figura che sta particolarmente a cuore a chi scrive, ho deciso di intervenire. Ho però anche deciso che lo farò vestendo i panni di Machiavelli, seguendo così l’esempio di altri che prima di me, e con maestria ben maggiore, si sono dilettati dialogando col passato. Mi scuseranno perciò i colleghi rinascimentalisti, se azzardo un po’, ma in fondo questo scritto aspira ad essere più un divertimento che un saggio scientifico.

Prima, però, sarà forse meglio riassumere brevemente i termini della ‘tenzone’, a beneficio del lettore. Per sommi capi, si è trattato di un confronto tra i due editorialisti sul significato e sull’utilità politica delle importanti manifestazioni pacifiste, che si sono tenute in diverse città europee, il mese scorso. Della Loggia le stronca, definendo il pacifismo ad oltranza una specie di ‘favola bella’ permeata di pericolosi sentimenti anti-politici, che lascerebbero mano libera ad un sordo machiavellismo politico sempre in agguato e pronto a prendere in ostaggio l’etica. Scalfari contrattacca, difendendo invece la legittimità politica del pacifismo europeo e rivendicando le aspirazioni etiche del pensiero politico di Machiavelli. Ecco qua: da una parte Machiavelli il gaglioffo, dall’altra parte Machiavelli filosofo del potere etico: il “Potere”(!). Machiavelli di qua, Machiavelli di là, Machiavelli di su ….

“Ebbene, di nuovo si fa il mio nome e di nuovo sul mio operato ci si china con scarso discernimento. Ormai ci sono abituato. Questa volta, però, devo dire che la cosa mi spiace un po’, perché mi si tira in ballo su questioni riguardanti il pacifismo, senza per altro darmi l’unico riconoscimento che davvero mi spetta e che dunque intendo reclamare. Sì, perché, e qui mi dispiace dover sfatare un mito e far crollare d’un botto mille castelli in aria che si sono costruiti sul mio pensiero, io fui soprattutto un uomo di pace, anche se vissi in tempi tragici, ove le armi erano un fatto ineludibile e soprattutto non sostituibile dalla politica, in quanto le armi erano la politica. Non la mia, però.

Infatti io fui, e lo ripeto, un pacifista; e lo fui massimamente nel Principe. Se infatti lì contemplai l’uso della forza, lo feci con un solo fine: la liberazione. Ricordo a chi se ne fosse dimenticato che, dall’invasione di Carlo VIII, quando ero poco più che un ragazzo, io in vita mia vidi soprattutto eserciti stranieri saccheggiare il mio paese, ahimè, incapace di difendersi e quindi trascinato esso stesso in una guerra fratricida. E fu proprio da quella sofferenza indicibile di patriota e italiano che sgorgò l’accorata invocazione rivolta ad un principe guerriero e liberatore, e anche un po’ Messia, con cui si chiude l’opera. Sì, avete letto bene: anche un po’ Messia… o meglio anche un po’ Papa: cioè, l’unico in grado, secondo me, di dare il sostegno necessario a qualsiasi tentativo di liberazione del paese, e rendere così duratura l’auspicata pace che ne sarebbe seguita. È forse un caso, secondo voi, che la mia polemica contro i mercenari, nei Capitoli 12-14 sia tanto reminiscente di un passo del Vangelo di Giovanni, dove si parla del buon Pastore e del mercenario? O che dedicassi il libro prima ad un fratello e dopo al figlio di un altro fratello dell’allora Papa, Leone X? Oh, quante cose ci sarebbero da dire! E quanto servirebbe proprio il Vangelo—quello del cammello che passa per le cruna dell’ago quando un ricco va in paradiso, e del perdono da concedere “settanta volte sette”—per capire il tipo di argomentare arduo, paradossale e iperbolico che adotto in quest’opera.

Ad ogni modo, tornando al pacifismo, tutta quella storia che io fossi affascinato dal Valentino — nel senso che lo considerassi un esempio che il mio principe dovesse emulare — l’hanno inventata. In verità, il Valentino nel Principe è un exemplum appositamente scelto per dimostrare la mia tesi: cioè, che le imprese militari anche le più ardite e valorose falliscono, se manca il sostegno di uno Stato forte; e soprattutto che questo Stato per essere tale deve dotarsi di una politica diversa, non più fondata sulla cavalleria, nel senso in cui la intendevamo noi; in altre parole, deve dotarsi di una politica fatta di intelligenza più che di forza. La dimostrazione di questa tesi si ebbe proprio negli anni che seguirono, i miei ultimi, quando Clemente VII, avendo preferito, come anche i suoi due predecessori, l’utilizzo dissennato della forza, invece della politica intelligente da me proposta nel Principe, non solo perse quel suo valoroso paladino, nonché nipote, nel quale io stesso avevo riposto qualche speranza, si vide addirittura saccheggiata la propria città. Fu dunque la storia a darmi ragione, non gli uomini, e credetemi se dico che avrei preferito di gran lunga avere avuto torto.

Gli storici che hanno capito quel mio libro così poco fortunato, si sono resi conto che vi è lì esposto un pensiero straordinario, non sulla politica etica del “Potere”, ma anzi sulla politica come scienza autonoma, affrancata da qualsiasi condizionamento dell’etica—anche se non per questo opposta all’etica (e guai a confondere questi due concetti!). A molti, però, è sfuggito il fatto che questo libro, calato nella sua realtà storica “effettuale” (come piace dire a me), inaugura innanzitutto, come si diceva, una politica intelligente, in alternativa alla politica della forza, e dunque, in ultima analisi, inaugura una politica a sostegno della pace.

Detto questo, mi si consenta una riflessione finale sulla suddetta ‘tenzone’ che indirettamente mi chiama in causa, ma senza riconoscere il valore effettuale del mio pensiero. Egregi signori contendenti, il pacifismo delle piazze europee non è né accidioso e ideologico né visionario e salvifico. È un pacifismo “scapuma,” come diceva di certo coraggio un amico di Milano, mémore degli ironici detti di un tempo (e lo so che non è da me ricorrere al dialetto milanese, ma in fondo non sono mica il Bembo!); in altre parole, è un pacifismo che se la dà a gambe, perché altro non può fare, non appena sente la voce imperiosa della SRagione di Stato—quella che, per intenderci, spesso e volentieri nei palazzi del Potere (!) storpia i miei pensieri pro domo sua. E se la dà a gambe, questo pacifismo di piazza, non perché sia falso, ma perché è semplicemente non più intrinseco alla Ragione di Stato. Lo si è visto con lapalissiana chiarezza recentemente in Libia, dove per la prima volta dopo sessant’anni di pace l’Europa è divenuta protagonista in una guerra vera e propria, e per i propri interessi. Non l’hanno forse visto questo i pacifisti europei? E dov’erano? Non mi risulta ci siano state grandi manifestazioni nelle piazze europee. Hanno forse detto: – Gheddafi non c’è più, quindi il fine giustifica i mezzi – esattamente come dicono tutti quelli che di me non hanno capito un bel niente, e che tra l’altro sono spesso tutto fuorché pacifisti? La verità è che, non diversamente dalla femmina balba descritta dall’illustre mio concittadino, l’Europa riceve premi Nobel di facciata e poi mostra il suo vero orrido volto lontano dai riflettori. E quando lo fa, ecco che il pacifismo se la dà a gambe.

In conclusione, egregi signori, il pacifismo non va né tenuto lontano dalle piazze, né ha bisogno di un posto nelle piazze; esso ha bisogno soltanto di un posto permanente nel cuore dell’uomo europeo; e soprattutto, permettetemi di dirlo, ha bisogno di un altro piccolo grande libro, come a suo tempo fu il mio, sulla politica intelligente che soppianta la politica della forza. In quest’epoca di guerre preventive e di azzeccagarbugli del diritto, che coniano espressioni eufemistiche per l’orrore, mi auguro davvero che qualcuno lo scriva presto questo libro, e l’intitoli L’Europa, e senz’indugio lo spedisca a Bruxelles. Chissà che possa servire. Ma il realista che c’è in me teme che forse la storia si ripeterebbe e, come fu allora per il mio, anche questo libro finirebbe prima in qualche polverosa soffitta del palazzo del potere, e poi in ostaggio, ed in secula seculorum, di uno scarso intendimento”.

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