La democrazia è un meccanismo fragile che va usato con cautela. Esige un popolo sovrano ma anche maturo, dei partiti organizzati ma anche democratici, un sistema di comunicazione di massa non conformista; condizioni che difettano nel nostro Paese.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un’Italia “nuova” che si trova a disagio con i processi di globalizzazione ma anche “antica” nella diffidenza verso lo Stato, dove vige un bipolarismo fatto da due coalizioni minoritarie che non riescono ad avere un voto su tre. Le elezioni hanno mostrato la fotografia dell’Italia fuori dalla retorica: un Paese polarizzato e culturalmente diviso in due: l’area della responsabilità e quella della protesta.
Mutazione antropologica o ritorno all’antico familismo degli italiani? La consultazione elettorale ha evidenziato che una buona parte degli italiani non ha fiducia nella politica razionale ma confida nell’antipolitica della protesta, della rabbia dell’ “essere contro”. I ragionamenti pacati del bocconiano professor Monti, che ha dato vita ad una delle più originali avventure elettorali della Repubblica, non hanno fatto breccia nei nostri concittadini i quali hanno preferito abbandonarsi al flusso delle emozioni suscitate da due personaggi che non dovrebbero trovare posto in una politica seria: l’ex comico Beppe Grillo, “l’uomo che tiene assieme tutte le rabbie, le fa prodigiosamente combaciare, le moltiplica e ne fa una forza terrorizzante contro il sistema”, e il cavaliere della piccola borghesia qualunquista, Silvio Berlusconi, che da vent’anni ipnotizza l’Italia con proposte senza costrutto.
All’onesta “normalità” di Pierluigi Bersani che continua a riproporre la vecchia politica della sinistra, aumentare la spesa pubblica e metterla a carico dell’enorme debito, ha fatto da controcanto l’imbonimento delle promesse irrealizzabili del venditore di sogni e di patacche che, all’estero, è visto come lo stereotipo degli italiani, un fac-simile del personaggio Totò che riesce a vendere ai turisti americani la Fontana di Trevi. Nella eterna contesa tra la “testa” e la “pancia”, tra la “ragione” e il “sentimento” la maggioranza degli elettori ha prestato poca attenzione ai dati di fatto, ai problemi reali, ai programmi per risolverli e ha preferito l’evasione di tipo televisivo: dopo un ventennio di vuoto gli italiani comprendono soltanto il linguaggio della “fiction”.
Una parte dell’area populista si arrende al nichilismo: il passato è scomparso, il futuro non c’è, conta solo il presente, quindi non preoccupiamoci di ciò che accadrà, limitiamoci a dare una sonora legnata alla “casta” politica che vive di privilegi sulle nostre spalle. Un altro pezzo di cittadini è invece tenacemente attaccato al passato, ad una cultura della sopravvivenza individuale e familiare che in altri tempi era giustificata dalla vita grama, dalla miseria di una terra povera, dalla tirannide dei potenti e dall’assenza dello Stato e che si è auto-perpetuata, di generazione in generazione, a dispetto dell’evoluzione sociale ed economica e dei più elevati livelli di acculturazione.
Eppure non c’è dubbio che l’Italia è cambiata, la televisione e la rete hanno favorito l’autonomia dei singoli e la trasformazione della ”democrazia dei partiti” in una “democrazia del pubblico” dove i cittadini contano di più ma sono pur sempre una massa di atomi scollegati a cui non importa sapere dove portano le scelte estemporanee di oggi, che si possono comunque capovolgere domani.
Ma se i “social media” hanno contribuito a scardinare l’ordinamento democratico tradizionale seminando sfiducia, la dilagante protesta ha cause molto più serie e gravi; la diffusione del benessere e della scolarizzazione non ha portato alla società migliori risorse cognitive e formative e una maggiore responsabilità dei cittadini; la politica è sempre e innanzitutto l’attività per conseguire obiettivi personali, interessi piccoli o grandi che siano, non una opportunità per promuovere il bene comune e pensare a questo disgraziato Paese a cui, in fin dei conti, dobbiamo molto della nostra vita e anche delle nostre fortune. Invece la qualità della “democrazia del pubblico” non è affatto superiore a quella della “democrazia dei partiti”. Tutto sommato i politici sono poche centinaia di migliaia mentre gli italiani sono sessanta milioni; se non si riesce a sostituirli, se sono sempre lì a occupare posti e a pretendere prebende fuori della portata dei comuni cittadini, vuol dire che il problema è a monte, che il guasto non è solo nella politica ma anche nella società.
L’accesso dei giovani alla scuola e all’università non hanno affatto cancellato le tracce dell’atavica cultura del familismo amorale, il primato del “tengo famiglia”, l’indifferenza del bene collettivo nella forma dell’evasione fiscale, della metà di cittadini esentati dai “ticket”, dalla raccomandazione come “passepartout” sociale, della scorciatoia dei gruppi di potere, delle “lobby” e delle amicizie.
Il progresso tecnico non ha scalfito il carattere degli italiani e neppure la globalizzazione che ha visto il passaggio da un modello di società “fordista” – gerarchico, razionale, chiuso, verticistico – al modello della società “post-moderna” – aperto, leggero, diffuso, policentrico – ha cancellato vizi e abitudini dell’italiano comune, post-fascista, post-democristiano, post-comunista, post-berlusconiano, camaleontico e coerente nel suo egotismo.
Il passaggio epocale dal pensiero e dalla cultura della razionalità, ma anche del conformismo, del fideismo e dell’utilitarismo, ad un nuovo modo di pensare individualista ed egocentrico che fa riferimento ai valori post-materiali, alle identità, agli stili di vita, al nuovo linguaggio e alle abitudini di consumo non ha elevato il livello di cultura e di funzionalità della politica.
L’esito delle elezioni era già scritto nei dati di fondo della società italiana e un’analisi men che superficiale avrebbe reso evidente che in Italia si cambia per lasciare inalterata la sostanza delle cose. I partiti superstiti, che sono l’ombra di quelli che furono un tempo, si sono mossi con disagio in una società che non conoscono più e da cui si sono estraniati in una gabbia di privilegi e impunità. Certamente sono entrati nelle istituzioni molte facce nuove ma i meccanismi di potere, per la mancanza di riforme, sono rimasti inalterati; la spinta delle emozioni – l’indifferenza, la rabbia, il rancore, la disperazione, l’egoismo, l’invidia sociale – hanno offerto l’innesco di una trasformazione del “peuple” in “populace”, del “popolo” in “plebe”.
Bossi, Maroni e Berlusconi con la corte dei miracoli sono un’immagine al tramonto, sostituita da quella radicale di Grillo che vuole il nulla: fuori dall’Europa, via dalla modernità, lontani dalla responsabilità. Le “masse”, disperse nella condizione seriale di individui privi di comunicazione personale, credono di decidere, ma in realtà lasciano sempre decidere i pochi. La strada del nostro Paese è sempre stata tracciata dalle folle, che hanno sempre deciso di lasciare ad altri, a pochi, la responsabilità delle scelte. Il risultato elettorale è l’ingovernabilità, la stasi politica, la presa di distanza dall’Europa, la decadenza del Paese.
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