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Lega debole e candidato governatore forte. Un paradosso fortunato. A Maroni riesce quel che non riuscì a Bossi: la conquista della Lombardia (padroni a casa nostra) era l’obiettivo delle origini. Viene raggiunto nel frangente storico più avverso: rovescio economico, crisi etica, sfiducia nella politica. Oltre a questo, la crisi nella crisi: il disagio, le divisioni, il tormento dentro la Lega dopo vicende di mediocre personalismo e sotto l’incalzare d’inchieste giudiziarie.
Una scommessa, l’elezione regionale. E molto rischiosa per l’alleanza scelta. Maroni decise per il realismo – e contro gli umori di parte della base nordista – quando essere realisti significava giocarsi tutto: il risultato, la segreteria, il futuro. Sancì l’intesa con un Berlusconi dato allora dai sondaggi al quindici per cento, non con il Berlusconi premiato ora con il raddoppio della percentuale. Gli va riconosciuta l’abile interpretazione del purismo machiavellico: guardare al fine, non guardare al mezzo. Berlusconi, fresco ex nemico affondato proprio in Lombardia, serviva come neoamico a Maroni. E viceversa. Patto siglato e game over che zittisce gl’integralisti padani (per esempio l’ala veneta del Carroccio) orientati a favore d’una corsa solitaria, e poi finisse come doveva finire. Sarebbe finita male invece che bene.
La Lega vince nonostante il forte calo di consensi suo e del PDL. Cioè vince perché gli avversari hanno un’endemica vocazione alla debolezza, a perdere dalle nostre parti. Il centrosinistra recupera rispetto al passato, però non a sufficienza: arranca nelle città (Varese, Gallarate, Busto Arsizio) come nei paesi, altro che sfondare. Il blocco sociale moderato resiste alla tentazione del cambiamento, un po’ si disperde, ma non si frantuma. Che si potesse parcellizzare e poi ricostituire in forma inedita era la speranza coltivata da Albertini (e da Monti che sponsorizzava Albertini): una speranza vana. Anche illogica. Perfino ingenua. Tanto da spingere alcuni affiliati della prima ora a rinunziare all’adesione proponendo il voto disgiunto – per le politiche in un modo, per le regionali in un modo differente – nel tentativo estremo di sostenere Ambrosoli. Tatticismo inutile, a rimedio d’una strategia sbagliata.
Alla fine si rivela premiante il privilegio assegnato alla questione sociale e alla questione fiscale. Incontra consenso l’avversione all’Europa percepita come fonte d’ogni affanno (ma è davvero la principale colpevole?), riscuote credibilità il proposito di trattenere più tasse sul territorio (ma è davvero possibile?). Due terreni scivolosi, vista la concorrenza del Movimento 5 Stelle che drena suffragi sull’intero fronte dell’offerta politica e che però qui non bissa il successo nazionale, fermandosi dieci punti sotto.
Commercianti, artigiani, piccoli imprenditori e il resto d’un variegato, disilluso, pragmatico mondo di provincia aspirano al nuovo senza voler rinunziare al vecchio. Non li attizza la frontiera estrema del ribaltamento totale (Grillo), non li persuade la promessa di radicalità nel cambiamento (Bersani). Confermano l’antica diffidenza verso ciò che si discosta troppo dalla conservazione, anche quando i conservatori eccedono nel conservarsi. E il riformismo? Il riformismo, adesso che tutto il Nord produttivo è a guida leghista (Piemonte e Veneto, oltre alla Lombardia), è una macropigione da pagare ai proprietari della casa settentrionale, convintisi ad affittare anche l’ultima stanza del loro potere agli epigoni del Senatùr. Maroni (Berlusconi con Maroni) si dice pronto a onorare l’impegno. Onorare è il verbo giusto e auspicabile, dopo che la Regione Lombardia della precedente legislatura si era così tanto (così vergognosamente) disonorata.
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