Anche se l’ora è tarda e, come cantava Modugno “è giunta mezzanotte”, mi accingo a scrivere, come al solito all’ultimo momento, il mio contributo per RMFonline. Sono reduce da una conferenza su Jerome Lejeune nel corso della quale abbiamo avuto la possibilità di conoscere la figura del grande medico e scienziato francese, attraverso il racconto di due responsabili della Fondazione, che a lui è intitolata e che ne continua l’opera: Thierry de la Villejegu, direttore generale, o come lui si definisce, servitore generale della Fondazione, e Ludovine de la Rochere, responsabile per la comunicazione.
Il Cardinale Angelo Scola, che è venuto recentemente a Varese a dialogare con il filosofo Massimo Cacciari sul tema del rapporto tra fede e ragione, ci ha ricordato in quella occasione che abbiamo bisogno di testimoni, di persone cioè, che non si limitino a dare il buon esempio, ma che conoscano la realtà e comunichino la verità, così come ha fatto Lejeune.
Uomo inquieto e curioso, sempre teso allo scopo di conoscere il vero, era consapevole del fatto che occorra del tempo affinché il vero possa essere verificato, un tempo che a volte può essere anche lungo; medico appassionato era mosso dallo scopo di prendersi cura e di guarire i suoi piccoli pazienti affetti da sindrome di Down; per questo ha ricercato la causa della malattia, e fu lui a scoprire, negli anni cinquanta, che il problema risiede in una anomalia cromosomica, la presenza di un cromosoma in più a livello della coppia 21. Questa scoperta rappresentava per lui una tappa importante nel lungo cammino alla ricerca di una terapia, diceva ai suoi collaboratori, dobbiamo trovare il modo di “silenziare” questi geni in eccesso. Il suo dolore fu immenso nel constatare che la sua scoperta, unitamente allo sviluppo della tecnica dell’amniocentesi, che permette di arrivare alla diagnosi prenatale, fu invece usata per una grande campagna di selezione eugenetica, che ai nostri giorni è diventata la norma nei paesi, così detti, sviluppati.
Eppure Lejuene non ha mai ceduto alla rassegnazione e la Fondazione continua oggi in questo tentativo, finanziando progetti di ricerca in tutto il mondo e per quella, che nei decenni passati poteva apparire come una illusione, iniziano ora a delinearsi alcune piste concrete. Ma, più al fondo della inquietudine, l’animo di Lejeune era segnato dalla gioia e dalla meraviglia di fronte al creato e al Creatore. Il suo brano di Vangelo preferito era quello di San Luca, che racconta dell’incontro tra Maria ed Elisabetta, quando Giovanni Battista, nel grembo di sua madre, trasalì di gioia incontrando Gesù, che era allora un embrione di poche settimane.
Il suo lavoro di medico era mosso da questo trasalire di gioia di fronte ad ogni vita umana, icona divina, che bisognava cercare di restaurare, e non di distruggere. Così il suo sguardo luminoso, la sua accoglienza paterna, erano già una cura per questi bambini e per i loro genitori. “Il suo sguardo mi ha guarito” ebbe a dire una delle tante madri, che aveva portato la sua creatura malata nell’ambulatorio del dottor Lejuene. È uno sguardo così, aperto e appassionato, di cui c’è bisogno in questa epoca segnata da un crescente disprezzo per la creazione e le creature, ridotte ad oggetti da usare o da buttare. È uno sguardo possibile nella scoperta che la nostra vita “sorge da un Amore e non è il prodotto di una casualità dispotica”, come ci ha detto Thierry de la Villagegu. In questa scoperta Jerome Lejeune ci è compagno di cammino.
La mostra su Jerome Lejuene si può visitare fino al 3 marzo, presso il salone delle esposizioni della Parrocchia della Brunella a Varese.
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