Forse il senso della rinuncia al trono di San Pietro da parte di Benedetto XVI è riassumibile in un gesto: nel mese di aprile 2009 egli, nel visitare la tomba di Celestino V, il monaco eremita che il 13 dicembre del 1294 aveva rinunciato alla tiara pontificia, vi depositò il suo pallio, quella fascia bianca intessuta con la lana che gli era stata imposta all’atto dell’elevazione al soglio pontificio. L’ascetico, sprovveduto Celestino V comunicò di rinunciare al papato – durante un Concistoro – perché inidoneo a fronteggiare le fazioni di cardinali che (anche) all’epoca dilaniavano la Chiesa.
Ebbene, dopo «il gran rifiuto» dantesco dell’11 febbraio – ancora una volta in occasione d’un Concistoro – diviene difficile sottrarsi alla suggestione che il gesto compiuto da papa Ratzinger sulla tomba di Celestino V non fosse un messaggio, evidentemente inascoltato, diretto a quello strano, ovattato mondo esistente dietro le mura leonine. Le analogie fra le due rinunce sono, peraltro, così evidenti che cercare di minimizzare l’accaduto e/o tentare di fare apparire l’iniziativa dell’ottuagenario pontefice come dovuta unicamente alla gravosità dell’alto magistero, non convince. Benché avvenute a distanza di 719 anni l’una dall’altra, le due rinunce al soglio sono pressoché identiche, perfino nelle parole adoperate, come riteniamo siano state identiche le ragioni che le hanno provocate: la guerra per bande di vescovi e cardinali alla presenza di un papa debole perché di transizione.
Era scontato che una siffatta rinuncia lasciasse interdetto tutto il mondo e suscitasse molti interrogativi tra i credenti e no. Come pure era scontato che aver tenuto all’oscuro i diretti collaboratori e i massimi vertici della Chiesa della decisione che andava da qualche tempo maturando rendesse, poi, invitabile una conclusione: il papa non si fidava del proprio entourage! Forse è da questo punto che noi, umili operai nella vigna dell’informazione, dovremmo partire per tentare di capire un gesto estremo che passerà alla storia perché – a differenza di quello del predestinato Celestino V – segnerà il millennio e scuoterà le fondamenta della Chiesa post conciliare peggio di quanto non stia già facendo in questi giorni.
Nel frattempo l’orbe cattolico si è diviso tra chi ritiene che «dalla croce non si scende» e chi, invece, sostiene che il papa ha fatto bene a decidere di andarsene, senza spiegare, né i primi, né i secondi, il perché. Ci proveremo noi ma per gradi. Le ragioni generali della rinuncia di Benedetto XVI hanno una cornice antica. Nel 1918 lo storico Oswald Spengler, nel corposo saggio Il tramonto dell’Occidente, sostenne, tra l’altro, che la nostra civiltà era destinata al tramonto a causa dell’affermarsi della democrazia e del socialismo, i sovvertitori, secondo lui, dei rapporti di potere. Dovessimo prendere per buono il ragionamento dello storico tedesco, tra le cause del tramonto dell’Occidente dovremmo includere anche il cristianesimo perché Cristo (oltre a essere stato il primo, vero socialista della storia) fu crocefisso proprio perché ritenuto un sovvertitore dei rapporti di potere allora esistenti in Israele. Su questi tre punti non possiamo essere d’accordo con Spengler perché, secondo noi, la causa preponderante del tramonto della civiltà occidentale non è stata l’affermazione dei principi cristiani, o del socialismo, o della democrazia ma, semmai, l’esaurirsi della loro carica ideale e/o spirituale.
Ecco, il gesto di Ratzinger che – non dimentichiamolo – è il più grande teologo vivente, s’inserisce proprio nell’esaurimento della carica ideale e spirituale di quella Chiesa che per alcuni è soltanto una costruzione di potere, per altri un mito e basta. In Occidente, però, i miti non stanno facendo altro che divorarsi a vicenda dalla caduta dell’Impero Romano in poi: il sanguinolento amalgama sul quale la caput mundi basava il proprio imperio fu fagocitato dall’evangelico «Porgi l’altra guancia»; il Dio sopra tutto medioevale fu soppiantato dal Dio insieme a tutto illuminista. Poi, nel tempo, il nostro Creatore ha assunto la stessa dignità di un feticcio degli indigeni della Tasmania in nome di una par condicio delle religioni che, siccome non spiegata, non capita e supinamente accettata dalla Chiesa, è andata a irrobustire il già levitante relativismo morale e religioso. Giovanni Paolo II cercò addirittura di combattere il dilagare del relativismo con un altro relativismo, quando esortò i cristiani a distinguere il peccato dal peccatore. Chi scrive è persuaso, invece, che i peccati siano commessi con il cuore e con la mente e, perciò, essi sono inscindibili da noi come lo sono pensieri e sentimenti, i fondamenti della coscienza.
Non dimentichiamo che la religione cattolica già offre molte scappatoie morali ai propri seguaci per i quali essa prevede addirittura un destino ultraterreno graduabile (Paradiso, o Purgatorio, o Inferno), se poi “sterilizziamo” anche il concetto di Dio e del peccato per bocca del papa, allora tutto diventa veramente relativo a questo mondo. Anche il bene e il male! Benedetto XVI, è vero, è stato meno presente di Wojtyla sul proscenio mondiale ma dopo un papa “politico” ce ne voleva per forza uno che fosse “spirituale” anche se questa caratteristica gli avrebbe fatalmente assegnato il ruolo del manzoniano vaso di coccio costretto a viaggiare con i vasi di ferro a nome Ecclesia visibilis ed Ecclesia invisibilis. E senza volerci addentrare nella filosofia, o nel diritto canonico, o nella teologia, possiamo rappresentarle plasticamente queste due Chiese, senza inibizioni di credente.
Le strutture tribali che si sono organizzate nella curia romana, lo scandalo Vatileaks per il quale è stato incarcerato addirittura il maggiordomo del papa, il discusso IOR che è stato senza presidente fino a ieri a causa lotte intestine, i preti pedofili, i buchi di bilancio di molti istituti cattolici e le faide intestine hanno dato (brutto) corpo all’Ecclesia visibilis. Il grande teologo, il prefetto del Sant’Uffizio, il papa conservatore ha rappresentato, invece, l’Ecclesia invisibilis. Oddio non è una novità di oggi perché queste due Chiese coesistono da duemila anni.
Allora che cosa è cambiato, perché dopo 719 anni un papa fa di nuovo «il gran rifiuto»? Secondo noi è cambiata la percezione che ha di sé la Chiesa: non più costruzione terrena al servizio del Cristo ma al servizio dei pingui servitori di Cristo! E ciò per Benedetto XVI era evidentemente intollerabile. Ha fatto bene egli ad andarsene? Era meglio se rimaneva al posto di nocchiere assegnatogli dal Conclave e dallo Spirito Santo? Chi scrive è anche lui del parere che «dalla croce non si scende» perché nessuno di noi può scendere da quella propria se non – quando essa diviene pesante da portarsi – invocare l’Altissimo affinché lo sorregga. Ma di sicuro non possiamo dimetterci da papa come non possiamo dimetterci dal genere umano, o da genitori, o da figli, o da malati senza speranza.
Il ruolo che ci siamo scelti o che Iddio ci ha assegnato diventa la nostra pelle e se qualche volta essa si lacera o si trasforma in sudario non possiamo buttare la croce e scappare. E a noi lo scorso 11 febbraio è parso di risentire l’eco di una voce arcana mentre rispondeva a un altro Pietro lungo la via Appia: «Eo Romam, iterum crucifigi».
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