Pubblichiamo un estratto dell’intervento che Gianfranco Fabi ha svolto martedì 19 febbraio nell’ambito degli incontri ecumenici organizzati a Milano dal Centro culturale protestante e dalla Fondazione culturale San Fedele dal titolo “Avete qualcosa da mangiare – Redenzione e condivisione del cibo nell’annuncio evangelico”.
Al contrario della moltiplicazione dei pani, raccontata da tutti quattro i Vangeli, l’episodio delle nozze di Cana è narrato solo dal Vangelo di Giovanni, un Vangelo che fin dal suo inizio (“In principio era il Verbo….”) ha un carattere meno storico e più apologetico degli altri tre. Il cardinale Martini lo ha definito “un Vangelo difficile, un Vangelo pieno di cose che non si afferrano subito. Si legge una pagina, si leggono alcune righe, si capisce globalmente il senso delle cose che sono dette, ma non si capisce perché siano dette a quel punto e quale significato abbiano.” È quindi il Vangelo più complesso, il più difficile da interpretare, il più ricco di simboli e di riferimenti nascosti. “Per me – ha scritto ancora Martini – è un Vangelo pieno di cose che non afferro, che non intendo, un Vangelo che oltre ad essere un po’ aereo, e quindi al di fuori dell’esperienza concreta di tipo ascetico, tende ad essere inoltre difficile nel concatenamento, nel sorgere di nuovi temi, nel legame che i temi hanno uno con l’altro”.
È una consolazione sapere che anche un grande biblista come Martini provava una certa soggezione di fronte alle pagine di Giovanni, pagine che vanno sempre lette e meditate a due livelli: quello ovvio del racconto, e quello che lo stesso autore ci invita a scoprire attraverso particolari indicazioni.
L’episodio delle nozze di Cana, è in questa prospettiva solo apparentemente lineare perché la descrizione che ne fa l’evangelista è ricca di contenuti simbolici e nascosti.
L’episodio è il primo evento un cui Gesù si manifesta e si manifesta attraverso un segno concreto nella trasformazione dell’acqua in vino. Vi è da dire subito che, così come nella moltiplicazione dei pani, il Vangelo parla dei risultati (“tutti mangiarono… venne offerto del buon vino”) ma non parla del miracolo come evento.
Gli esegeti ci spiegano che anzitutto egli non usa il termine “tératon” = prodigio, per indicare l’evento, bensì “semèion” = segno. Nel quarto vangelo “segno” è un’azione compiuta da Gesù che, ben visibile, conduce però alla conoscenza di una realtà superiore e non percepibile ai sensi.
Siamo di fronte in pratica ad una manifestazione che nell’ottica di Giovanni diventa sicuramente simbolica di molti elementi che si presentano in una forma anche enigmatica. Già nelle prime parole per esempio si parla del fatto che “Il terzo giorno ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea”. Giovanni illustra sommariamente che cosa era avvenuto nei due giorni precedenti, ma senza dare una spiegazione del perché il suo racconto inizi proprio da quella data.
“Nell’Antico Testamento – e qui ci aiuta “Gesù di Nazareth”, il libro di Benedetto XVI – il terzo giorno è la data della teofania come per esempio nel racconto centrale dell’incontro tra Dio e Israele sul Sinai: Al terzo giorno sul far del mattino vi furono tuoni, lampi (…) era sceso il Signore nel fuoco (Es 19, 16-18). Allo stesso tempo si può cogliervi un rimando anticipato alla teofania finale e decisiva nella storia: la resurrezione di Cristo nel terzo giorno”.
C’è quindi nel racconto di Giovanni una profonda volontà simbolica che diviene per sua natura, anche se non direttamente, apologetica. Con molti elementi che fanno riflettere al di là della dinamica, in fondo molto semplice, con cui si svolgono gli eventi.
È così il fatto che una delle prime apparizioni pubbliche di Gesù sia avvenuta ad un matrimonio: proprio il matrimonio è la similitudine usata da Gesù per indicare il regno dei cieli (Matteo 22, “Il regno dei cieli è simile a un re, il quale preparò le nozze di suo figlio”). Vi è poi la scelta del vino come elemento centrale e la risposta (pur mediata dalla Madonna) ad un bisogno concreto e improvviso. Vi è da sottolineare che l’intento di Gesù non è quello di apparire, anzi in un primo momento sembra quasi ribellarsi alla madre che gli fa presente la situazione di disagio in cui rischiano di trovarsi sposi e invitati.
Il senso del gesto è una risposta al bisogno, una risposta che va al di là dei suoi progetti e delle sue intenzioni. “Non è ancora la mia ora” è stata la sua prima risposta quando viene sollecitato da sua madre. Una risposta che ricorda quella di quando dodicenne si fermò a discutere con i dottori nel tempio dopo aver lasciato la carovana dei genitori: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? Ma essi non compresero le sue parole”.
Gli studiosi del Vangelo di Giovanni hanno scritto grandi pagine per cercare di interpretare la risposta di Gesù a sua madre. Sulla base del testo aramaico dei Vangeli, per Josè Miguel Garcia la frase andrebbe scritta “Non per me, bensì per te, donna, è giunta opportuna la mia ora”. Il che renderebbe sicuramente più logica la risposta di Maria che ordina a servi di fare quello che il Figlio avrebbe indicato.
Ma ugualmente interessante è l’interpretazione di Ugo Vanni, che ha dedicato tutta la sua vita allo studio e all’insegnamento della Scrittura, che afferma: “Il perché Maria venga chiamata “donna” dal Figlio rimane un mistero e suscita nel lettore un interesse che perdurerà nel prosieguo della lettura”.
La mia umile interpretazione è che Giovanni abbia raccontato le parole e abbia necessariamente sottinteso gli sguardi. Possiamo immaginare lo sguardo della Madonna di fronte alla risposta del Figlio: “non è ancora la mia ora”. Uno sguardo quasi di rimprovero e insieme di sollecitudine. Uno sguardo che diceva: come puoi non capire che un tuo gesto è indispensabile perché la festa del matrimonio abbia la sua più naturale e grande conclusione. E lo sguardo di Gesù è quello di un Figlio che immediatamente torna a fare i conti con la realtà.
E la realtà è quella di un bisogno che non può aspettare, è presente, qui ed ora.
E così a questo punto Gesù rompe gli indugi, ordina ai servi di riempire le giare d’acqua e di portarle al maestro di tavola. Solo i servi e i discepoli che erano con Gesù poterono vedere e rendersi conto di quanto avveniva. Non così gli sposi, gli invitati, i cerimonieri. Anche in questo come in altri episodi sembra quasi che Gesù non vuole che se ne parli. E comunque, annota Giovanni, “Questo inizio dei segni fece Gesù in Cana di Galilea e rivelò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.
E il Vangelo di Giovanni termina con: “Gesù fece molti altri segni….questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo” (20,30-1).
Ma torniamo alle interpretazioni simboliche.
Non bisogna dimenticare che il vino, la vite, la vigna hanno un posto di rilievo nelle Sacre Scritture. Come non ricordare le prime parole di Joseph Ratzinger divenuto Benedetto XVI: “Cari fratelli e sorelle dopo il grande Papa Giovanni Paolo II i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”.
La vigna nella Bibbia è l’immagine della sposa. E il vino come fonte di gioia, come espressione della vita e della passione, è un riferimento che si trova in tutta la Bibbia.
“Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino.”
Così inizia il Cantico dei Cantici dove in un passo successivo si afferma:
Quanto è soave il tuo amore,/ sorella mia, mia sposa,/ quanto più inebriante del vino è il tuo amore.
È interessante notare come nel grande dipinto di Paolo Veronese, trafugato da Napoleone e ora custodito al Louvre, le nozze di Cana sono rappresentate non solo come cerimonia fastosa, in un grande e ricco palazzo, con sontuosi costumi, ma soprattutto con il Cristo al centro del tavolo degli sposi quasi nella stessa posizione in cui viene rappresentato in altri famosi dipinti dedicati tuttavia all’Ultima Cena, come quello di Leonardo da Vinci.
(Per inciso. Il dipinto del Veronese era stato realizzato per il refettorio del monastero benedettino dell’Isola di San Giorgio a Venezia. L’Italia ha cercato più volte di ottenere dalla Francia la restituzione del dipinto. Inutilmente. La Fondazione Cini, che ora gestisce il complesso monumentale dell’Isola di San Giorgio ha fatto realizzare una copia con le più moderne tecnologie per rimettere il dipinto al suo posto: andandolo a visitare si può notare come il grande quadro sia parte integrante dell’ambiente e sia stato concepito e realizzato proprio per essere compreso tra le colonne e le volte di quella sala come all’interno di un grande palcoscenico.)
Quella del Veronese di mettere Cristo al centro non è solo una scelta pittorica. Le nozze di Cana sono, secondo molte interpretazioni, l’annuncio dello sposalizio di Dio con il mondo attraverso la venuta del Figlio. E sono l’anticipazione proprio di quell’ultima cena in cui il pane e il vino diventano il modo con cui il Cristo mantiene la sua presenza tra i discepoli e nel tempo.
Ma allo stesso modo non possiamo sottovalutare la dimensione di fondo di questo episodio ed è la risposta ad un bisogno, una risposta che avviene valorizzando la realtà. Riempire le giare d’acqua così come prendere i cinque pani e i due pesci: è tutto quello che abbiamo a disposizione. Eppure bastano per sfamare cinquemila persone e per evitare che una festa di matrimonio perda una dei caratteri più forti, quello della felicità.
Perché anche la felicità è un bisogno dell’uomo. Il pane risponde a un bisogno, la festa risponde a un desiderio. Entrambi, il bisogno e il desiderio, sono dimensioni dell’umano, dimensioni materiali e spirituali strettamente intrecciate.
Siamo nati per essere felici. E anche al desiderio di felicità la fede può e deve dare una risposta.
Nell’episodio delle nozze di Cana, osserva ancora Benedetto XVI, “il segno di Dio è la sovrabbondanza. Questa sovrabbondanza è la sua gloria. La sovrabbondanza di Cana è perciò segno che la festa di Dio con l’umanità, il suo dono di sé per gli uomini, è cominciata. La cornice dell’avvenimento, le nozze, diventa così un’immagine che indica, al di là di se stessa, l’ora messianica: l’ora delle nozze di Dio con il suo popolo ha avuto inizio nella venuta di Gesù. La promessa escatologica entra nel presente”.
La sovrabbondanza come nella moltiplicazione dei pani. Dopo che cinquemila persone mangiarono a sazietà, racconta ancora il Vangelo di Giovanni, “riempirono dodici ceste dei pezzi di cinque pani d’orzo che erano rimasti a coloro che avevano mangiato”.
E lo stesso Vangelo lascia intendere che le sei giare di pietra che Gesù fece riempire d’acqua rappresentavano una quantità sicuramente rilevante.
E peraltro Gesù non disdegnava il cibo. Lo sottolinea Luca: “È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli”.
Possiamo cogliere in questa prospettiva il richiamo ad un dato fondamentale della creazione: Dio ha dato all’uomo tutti i mezzi necessari per la propria vita. Fare un buon uso della creazione vuol dire avere la possibilità di rispondere ai bisogni, partendo da quelli più semplici ed essenziali del mangiare e del bere, dell’intera umanità. Così come vuol dire mettere la persona al centro di ogni interesse e di ogni attività. L’evoluzione dell’umanità è la realtà con cui dobbiamo fare i conti, ma è un’evoluzione che deve trovarci protagonisti e non semplici spettatori, quando non vittime.
Torniamo alla concretezza del cibo. Con le attuali conoscenze tecniche e scientifiche sarebbe possibile dar da mangiare due volte all’intera popolazione della terra. Invece il mondo conta 868 milioni di persone che non hanno abbastanza cibo e 1,5 miliardi che invece sono obese o in sovrappeso. Il costo sanitario dell’obesità in Italia viene valutato in 22 miliardi l’anno ed è in forte crescita. Ancora nel mondo un miliardo di persone è senza acqua e, mentre l’agricoltura nel suo complesso è diventata efficiente come mai prima d’ora, un terzo della produzione alimentare mondiale va sprecata: ogni anno si perdono 1,3 miliardi di tonnellate di cibo. Secondo la FAO, nei Paesi in via di sviluppo perché mancano i mezzi di trasformazione e conservazione delle derrate alimentari. Nelle nazioni ricche, invece, lo spreco avviene all’interno delle famiglie. Per rimanere in Italia, ogni anno buttiamo nella spazzatura 6,6 milioni di tonnellate di cibo, una media di 146 chili a testa.
L’alleanza tra Dio e gli uomini deve essere anche un’alleanza tra gli uomini e il creato. Non un’ecologia antimoderna, non una visione dell’uomo sottomesso alla natura, ma una grande fiducia nella capacità e nell’intelligenza dell’uomo per affrontare e avviare a soluzione i problemi. Nel segno dell’amore, della condivisione, della passione per il destino dell’altro. In quell’umanesimo integrale che in cui il cuore muove la sapienza e in cui la testimonianza di Cristo ci parla di un Dio vicino. Quel Dio vicino – come afferma l’ultima lettera pastorale del nostro arcivescovo – “che sprigiona, irresistibile, la gioia della festa. La festa infatti non è l’evasione dai problemi di tutti i giorni, ma la grazia di riconoscere il senso del lavoro quotidiano, di trovare il riposo di ogni fatica, la consolazione di ogni lacrima, la riconciliazione di ogni divisione”.
La festa di nozze diventa così la parabola della vita. L’attenzione al cibo, concreto e indispensabile, la gioia della festa, la sollecitudine per i bisogni, il segno della salvezza. L’acqua che diventa vino non è solo l’esaltazione del vino, ma è anche l’esaltazione della stessa acqua e quindi della semplicità e dell’utilità di quello che ci circonda, della realtà.
Riflettere sul cibo forse ci ha fatto venire un po’ di appetito. E allora come diceva la preghiera di Tommaso Moro: “Dammi, o Signore, una buona digestione ed anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, col buon umore necessario per mantenerla”.
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