In questa campagna elettorale la politica ha dato il peggio di sé. Con i partiti più o meno tutti impegnati a dimostrare quanto abbia ragione Beppe Grillo a chiedere di fare piazza pulita di chi ha governato l’Italia fino ad ora.
Nella rincorsa delle promesse tutti i grandi partiti hanno fatto a gara nel far dimenticare il passato, cioè i risultati del tutto negativi dei governi degli ultimi vent’anni, e nel coltivare la strategia delle illusioni promettendo soldi (in contanti) e lavoro come se si potessero trovare nel campo dei miracoli.
Eppure l’Italia avrebbe bisogno di misure serie e concrete per rilanciare la crescita economica, partendo da un deciso taglio della spesa pubblica che possa permettere una altrettanto drastica riduzione delle tasse. Rilanciare la crescita è fondamentale innanzitutto perché per troppi anni l’Italia ha viaggiato a piccoli passi anche quando l’economia internazionale viaggiava a ritmi sostenuti. E poi perché uno sviluppo dell’economia porterebbe quasi automaticamente con sé anche la soluzione per i grandi temi sul tappeto, dalla disoccupazione al debito pubblico.
Bastano poche cifre per indicare lo stato di profonda debolezza in cui si trova il Paese. Il reddito per abitante è ora allo stesso livello del 1997, mentre in questi stessi quindici anni nell’area dell’euro i redditi sono aumentati, in media del 14%. Negli ultimi cinque anni, quelli in cui più forte è stata la crisi, l’Italia ha perso un milione e mezzo di posti di lavoro, il tasso di disoccupazione è raddoppiato, la produzione industriale è calata del 25%.
Certo, la crisi ha colpito tutti i Paesi industrializzati, ma l’Italia è riuscita a fare peggio degli altri anche per la mancanza di adeguate politiche di sostegno economico e per il continuo rinvio delle riforme necessarie a rendere più efficiente il mercato, a ridurre la spesa pubblica, ad agevolare l’attività delle imprese.
Eppure l’Italia non manca di punti di forza. Ha il secondo apparato industriale d’Europa (al primo posto è ovviamente la Germania) basato sulle piccole e medie imprese, con una grande potenzialità sul fronte dell’export soprattutto nei settori di “innovazione leggera” come la moda, l’arredamento, il design, ma anche con una solida e competitiva presenza sul fronte dei macchinari e dell’automazione. Inoltre, nonostante i recenti scandali, il sistema bancario italiano è sostanzialmente solido, ha richiesto solo marginalmente interventi pubblici di sostegno e ha un forte collegamento con il territorio e con le imprese soprattutto attraverso le banche popolari e di credito cooperativo.
L’Italia ha poi un grande potenziale per l’espansione nel settore del turismo con un patrimonio artistico e culturale unico al mondo, ma per il quale sono sempre mancate adeguate politiche di valorizzazione. Ma c’è un unico, enorme, punto debole. È lo Stato, con i Governi che lo hanno guidato. Elefantiaco, costoso, inefficiente. Uno Stato che intermedia direttamente il 50% del prodotto interno lordo e che sull’altra metà impone vincoli, obblighi, procedure e gabelle. Uno Stato che ha lasciato crescere negli ultimi anni un federalismo inconcludente e pasticcione. Uno Stato che non è riuscito (o non ha voluto) mantenere la promessa fatta con la partecipazione alla moneta unica: quella di ridurre progressivamente un debito che pesa come un macigno sulle possibilità di manovra finanziarie.
In queste condizioni il paese avrebbe bisogno di una drastica cura di efficienza unita ad un taglio significativo della spesa pubblica. Abolire le province, accorpare i piccoli comuni, adottare un federalismo responsabile, limitare i costi della politica, introdurre principi di merito e di responsabilità nell’impiego pubblico ora ipergarantito, privatizzare velocemente almeno in parte il patrimonio valorizzando, per esempio, le decine di caserme militari che, come quella di Varese, si trovano nelle aree urbane di piccole e grandi città. Tutte ipotesi che non si trovano, se non in forma estremamente generica, nei programmi elettorali dei grandi partiti.
Certo, si tratta spesso di scelte che appaiono complesse e impopolari. Ma rimettere in moto il circolo virtuoso della crescita porterebbe con sé l’aumento dei posti di lavoro e quindi dei redditi e, a loro volta, delle entrate fiscali e quindi delle possibilità di rendere sempre meno pesante il macigno del debito. La strada è fin troppo chiara. Ma è altrettanto chiaro che la politica italiana, da destra a sinistra, (con qualche piccola e simbolica eccezione come il movimento di Oscar Giannino), continua ad essere convinta che lo statalismo sia la soluzione. Invece è il primo problema.
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