Il regista Nanni Moretti fu profetico a proposito del possibile evento delle dimissioni d’un Papa. Ne raccontò due anni fa nel film “Habemus Papam”, di cui scrivemmo su RMFonline. Quell’articolo del passato ha cittadinanza di diritto nel presente. Ve lo riproponiamo.
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Chi ha visto a suo tempo il film “La stanza del figlio” non lo ha più dimenticato. E chi ne aveva fino in fondo condiviso quel modo di affrontare il tema della morte e di una famiglia frantumata dal dolore, non poteva che piangere lacrime vere. In silenzio e al buio, nella vergogna di rivelare la compartecipazione a una sofferenza fittizia, ma davvero provata, e di cui stava rivedendo l’esatta fotografia, a parti rovesciate: il dramma atroce di un genitore che perde il figlio, contro quello del figlio – di una figlia – che perde, troppo presto, un genitore. Perché lì davvero era l’esatta rappresentazione di una famiglia e di quanto la morte, quando arriva, possa spezzare, e prendere, e chiederle. E infine ricomporre di nuovo, dopo lo strappo di quella catena di amore e di dubbi, di certezze e rimpianti, di debolezze e fiducia, di pause, silenzi e singhiozzi. E di gesti e rumori della quotidianità stravolti dalla mutata realtà dell’assenza di qualcuno.
La “Stanza del figlio” non è il solo film di Moretti ad averlo consacrato grande regista. L’elenco è nutrito, ma ora c’è anche questo “Habemus Papam”. Il non credente Moretti va a ficcare il naso ancora una volta in temi che, per qualcuno, forse non lo dovrebbero riguardare. E invece lui ci entra con la consueta padronanza del mestiere, un mix di “leggerezza” e ironia un po’ surreale, tipicamente morettiane (si veda la scena dei cardinali impegnati in una partita di pallavolo), calate in un gioco di specchi tra regista e attori, tra storia e finzione, tra introspezione e voglia di andare più in là…
Il risultato è ancora nella conferma del suo autore e nella certezza di un film destinato a rimanere, a suscitare domande, come i maestri del nostro cinema ci avevano abituati. Moretti ci offre la prova di chi s’avvicina con la curiosità di un bambino, senza presunzioni o schemi predefiniti, all’uomo più vicino a Dio in terra. Lo va a trovare nelle sue stanze, lo interroga “di persona”, da attore, sotto le vesti di un celebre psichiatra, per capirne e supportarne l’umana fragilità, lo spia nei suoi giri in incognito per Roma e nei colloqui con un altro medico, la moglie dello stesso luminare.
Lo lascia infine su quel balcone da cui è solito affacciarsi ogni pontefice e lo consegna definitivamente al giudizio e alla fantasia dello spettatore senza fornire risposte. Tutto questo dopo aver ispirato infiniti interrogativi (come in quel teatro dove si recita Cechov, e il recalcitrante papa, e mancato attore, sosta estasiato) sul perché un pontefice, fresco di nomina, rifiuti l’altissimo compito cui i cardinali, e Dio, lo hanno chiamato. E del quale, dopo una riflessione che dura qualche giorno, non accetta il peso. Il Papa di Moretti, che ha l’amabile fisicità senile di un indimenticabile Michel Piccoli, impegnato in una magistrale prova di recitazione, ricorda le fattezze corpulente e bonarie di due pontefici: Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII, ma ha le fragilità di Papa Luciani e i timidi impacci di Ratzinger. E reitera nella narrazione filmica quel rifiuto che la storia della Chiesa ha davvero conosciuto e che fu di Celestino V.
Non c’è naturalmente, da parte del regista, nessuna velleità di dare giudizi sul gesto del suo protagonista. Ma neppure su altro che riguardi la Chiesa e la sua storia, passata o recente. Solo curiosità e domande, messe lì con estro artistico e serietà d’intenti. Curiosità insomma che s’apparentano alle solitudini, ai dubbi e alle domande già suscitate dal volenteroso pretino di “La messa è finita”, altra indimenticabile prova registica e interpretativa di un più giovane Moretti, fin d’allora molto attento all’interessante crogiolo di umanità del mondo clericale. Prima di realizzare “Habemus Papam”, ha raccontato Messori, Moretti si recò da monsignor Ravasi con un abbozzo di sceneggiatura, per ottenerne un giudizio. E il monsignore giudicò l’idea interessante.
Le immagini del funerale di Giovanni Paolo II, nel vento che solleva e scompiglia le sottane dei cardinali, immagini di repertorio, legano con sapienza registica storia e finzione, in un affresco di realtà che si offre da fondale alla fantastica architettura teatrale morettiana di Habemus Papam. Un mix filmico ben dosato, il cui risultato non contraddice alla domanda di fede che è in ogni uomo. “Ogni forma autentica d’arte – ha scritto Giovanni Paolo II nella lettera agli artisti del ’99 – è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta”. In un ulteriore passaggio della stessa lettera, Giovanni Paolo II, l’ex attore e drammaturgo Karol Wojtyla, – così somigliante, eppure tanto diverso dal pontefice di Moretti – spiega ai “colleghi” artisti: “C’è un’etica, anzi una ‘spiritualità’ del nesso artistico, che a suo modo contribuisce alla vita e alla rinascita di un popolo. Proprio a questo sembra alludere Cyprian Norwid (poeta e scultore polacco n.d.r.) quando afferma ‘la bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere’ “.
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