La rievocazione storica dell’eccidio delle foibe, perpetrato – in diversi anni e anche a guerra ultimata – dai “titini” contro le popolazioni italiane orientali istriane e dalmate, è stato al centro della riflessione che Sissi Corsi, profuga di prima generazione dalla città di Pola, ha sostenuto con dovizia di episodi e riferimenti puntuali, spesso in lingua “furlana” , domenica 10 febbraio, durante l’inaugurazione del parco pubblico cittadino dedicato ai martiri dell’infoibamento.
La ascoltavo e ogni conoscenza storica acquisita sui libri diventava insignificante dinanzi alla sua commozione, per quanto contenuta, e alla sua dignitosa e appassionata storia di esule.
E’ questa una delle pagine crudeli della nostra storia, atroci come solo sanno esserlo le vicende di popolo in cui l’odio politico, razziale, territoriale, religioso o etnico prevalgono sul rispetto della dignità umana.
“ Se questo è un uomo” deve essere ripetuto ogni volta in cui venga soffocato con la violenza fisica o psicologica il diritto alla libertà di pensiero, di appartenenza, di espressione, di scelta politica e religiosa, di vita in generale.
Alla scuola, primariamente, il compito di ricordare. Da docente di storia in un liceo statale della nostra città riconosco quanto intere generazioni abbiano pagato con la non consapevolezza il silenzio su questa atroce parte della storia nazionale ed europea. Solo la tenacia dei tanti profughi istriani e dalmati, raccolti in molte città italiane, ha saputo restituire dignità documentaria ai giorni drammatici degli assassini di massa, delle violenze fisiche e morali subite dai loro genitori, parenti, amici che hanno perso la vita sotto la scure della violenza e dell’odio razziale e politico. Da dieci anni la “giornata del ricordo” riannoda la memoria degli studenti al grido delle donne incinte straziate per il ventre aperto al solo scopo sadico di estrarne il feto, all’urlo disumano di uomini evirati ai quali venivano ricacciati in bocca i testicoli, alla tortura dell’essere legati col filo di ferro ai propri amici e concittadini prima di venire gettati nelle gole carsiche, inghiottiti dal buio dell’agonia.
Da tempo la scuola ricorda ogni anno la tragedia collettiva di questo e di altri eccidi e legge le vicende di ogni totalitarismo come forme di repressione, annebbiamento della dignità umana, impoverimento delle civiltà. Se ancora qualche docente non lo dovesse fare, che siano allora studenti e genitori a chiedere il rispetto di queste memorie, che contano molto più di qualsiasi parte di “programma” da svolgere. Nemmeno mi pare lecito fare distinzioni circa la materia che si insegna: la storia è dentro la vita di ciascuno di noi e nessuno, che sia educatore di giovani, può sentirsi esentato dal dire con forza no alla violenza, alla guerra, agli stermini. Né alcun docente può arrogarsi il diritto di attribuire ai soli docenti “di lettere” il compito di ricordare.
Ma il più alto livello di civiltà di un Paese si raggiungerà quando, prima ancora dei docenti, nessun genitore si priverà del dovere civile nei confronti dei propri figli di fermarsi e assieme a loro dedicare un pensiero ai morti delle guerre, di ogni guerra, alle vittime delle violenze, di ogni violenza, ai poveri di ogni disequilibrio economico e di ogni solitudine. Saremo donne e uomini liberi quando anche il grido degli esuli naufraghi nei nostri mari, dei prigionieri di qualsiasi campo profughi del mondo, degli affamati di ogni angolo della terra sarà accolto come “parola della nostra storia”, che abbiamo il dovere di conoscere, l’onestà di interpretare e il coraggio di correggere.
Luisa Oprandi
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