Il 25 agosto del 2011, il segretario generale della CGIL, Susanna Camusso, ritenne di poter dire la sua sulle Forze Armate: «Penso che andrebbero ridotte le spese militari. Quando parlo di riduzione delle spese militari, non mi riferisco alle spese di Polizia e alla sicurezza, ma alle spese militari». E noi che pensavamo che i primi a produrre la sicurezza di uno Stato dovessero essere i militari delle sue Forze Armate. A parte la singolare visione che la Camusso ha della sicurezza, è innegabile che chiunque vincerà le immanenti elezioni politiche si troverà sulla scrivania un problema (tra i tanti) che prevede soltanto due soluzioni: o si mantiene in vita un dispositivo di difesa militare credibile o, unici in Occidente e credo nel mondo civile, metteremo i militari in cassa integrazione. Sì, perché il problema è con quali soldi mantenere le Forze Armate e, soprattutto, perché mantenerle dopo la fine dei blocchi militari.
Per quanto riguarda il perché mantenerle la risposta è che non si può fare parte di un’alleanza politica e militare come il Patto Atlantico senza possedere delle Forze Armate appena degne di questo nome perché in caso contrario nessuno avrebbe più interesse a stabilire un sodalizio di alleanza o mutua difesa con noi tipo la NATO. E, detto con franchezza, le Forze Armate Italiane da sole non riuscirebbero a impensierire neppure la gendarmeria della Repubblica di San Marino. E questo non perché i nostri militari siano inferiori a quelli degli altri Paesi, anzi, ma perché è il loro Parlamento (composto per un sesto d’inquisiti dalla magistratura) a essere inferiore a quella degli altri Paesi e in democrazia la difesa di un Paese è compito dei rispettivi Parlamenti e non dei militari che, semmai, ne sono lo strumento.
Posto che, se vuole rimanere in un sistema di alleanze militari capaci, eventualmente, di confrontarsi con una Cina planetaria che sta usando parte del suo prodigioso PIL per armarsi e accaparrarsi quelle risorse energetiche e alimentari indispensabili alla sopravvivenza del Terzo Mondo ma anche dell’Occidente, l’Italia non può fare a meno di mantenere delle Forze Armate che siano almeno credibili. Il problema principale, dicevamo all’inizio, è stabilire con quali soldi questo sarà possibile al governo che uscirà dalle urne il 24/25 febbraio prossimi.
Al riguardo delle “missioni di pace” all’estero che stanno depauperando le già ridicole risorse della Difesa, l’opinione pubblica nazionale si divide in due principali categorie: quelli che le ritengono utili perché impediscono l’estensione dei conflitti armati locali, e coloro che le giudicano, invece, pericolose perché la presenza di militari stranieri, alla fine, finisce per fare alleare contro di essi i vari contendenti. V’è, poi, un’altra categoria, alla quale appartiene anche chi scrive, che considera ogni “missione di pace” all’estero pericolosa perché anemizzerà fino al collasso il gramo budget della Difesa. Basti pensare che, soltanto per pagare gli stipendi ai 4.200 uomini impegnati in Afghanistan, l’Italia spende 600.000 euro il giorno. A questo bisogna aggiungere gli stipendi degli altri 4.000 militari italiani suddivisi tra la Georgia, il Congo, il Kosovo, il Libano, i Balcani, la Bosnia, Hebron, Rafah, Dàrfur, Cipro, Iraq, Somalia, Uganda e Libia.
Possiamo, quindi, dedurre con una ragionevole approssimazione che le operazioni militari di pace all’estero costino al contribuente italiano, complessivamente, un milione e cinquecentomila euro il giorno che, assieme alle spese per la logistica e la sussistenza, va a consumare il miliardo e mezzo di euro annualmente destinato alle operazioni fuori area. Se, perciò, ritirassimo le forze ora impegnate all’estero il budget della Difesa, s’irrobustirebbe di un altro miliardo e mezzo di euro: con tale cifra in Italia manterremmo trentacinque reggimenti per un anno senza andare a gravare di un centesimo sulle già maltrattate tasche dei contribuenti.
Le nostre Forze Armate, poi, pur contando ormai poco meno che 180.000 uomini hanno a comandarle 480 generali, come dire uno ogni 381 militari, roba che non può permettersi neppure l’esercito statunitense che annovera un generale ogni 1440 uomini. Invece di continuare a tagliare coloro che, poi, devono realmente affondare le mani nella merda e nel sangue della guerra reale, i volontari, tagliamo i generali: risparmiando lo stipendio di 200 di essi avremmo i soldi per pagare lo stipendio a 800 volontari.
Il guaio è che nelle Forze Armate, come nel resto del Paese d’altronde, quando si tratta di fare sacrifici si parte sempre «dall’ultimo in fondo a destra» come soleva dire l’unico, grande generale di Corpo d’Armata che abbia avuto l’Esercito italiano del dopoguerra, Ferruccio Boriero, del quale chi scrive fece da aiutante di campo per oltre quattro anni. Se, pertanto, il governo che verrà dopo le prossime elezioni politiche avrà il coraggio di ristrutturare le Forze Armate partendo dai vertici e non dalla base, se avrà il coraggio di scegliere capi militari magari caratterialmente intrattabili (come il prefato Boriero…) ma di sicura fede democratica, calati nella realtà delle Forze Armate, capaci, franchi e leali con superiori e inferiori, allora forse riusciremo a salvare ciò che resta del nostro dispositivo di difesa del Paese.
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