Antonio Gramsci, il grande pensatore comunista, avrebbe criticato in uno dei suoi famosi Quaderni scritti nella detenzione del fascismo, l’amico Palmiro Togliatti spingendosi addirittura alla condanna del comunismo tout court sino a incrinare fortemente i pilastri che reggevano il sistema del potere sovietico. E ancora, la mente che Mussolini avrebbe voluto “smettesse di funzionare per sempre”, morto nelle mani dei suoi aguzzini nella Clinica Quisisana di Roma, avrebbe speso parole definitive contro i metodi staliniani, equiparando l’estorta confessione ai prigionieri “a un principio giuridico del Medio Evo” come riferito dall’economista Piero Sraffa, sodale di Togliatti, ad Alfonso Leonetti, autorevole dirigente del PCI.
Questi pesanti e intriganti interrogativi accompagnano il nuovo libro di Franco Lo Piparo, lo studioso da anni impegnato a ricostruire il pensiero e il tragitto politico di Gramsci, “L’enigma del quaderno” (pp. 162, Euro 18, Donzelli editore) e contribuiscono a rimpolpare una spy-story che, malgrado dubbi e perplessità della critica più autorevole (in primis Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci) non dà segnali di potersi esaurire.
Il “caso”, un vero e proprio “giallo”, prende le mosse dal fatto che Franco Lo Piparo è convinto che sia esistito un quadernetto di ventisei pagine, targhetta XXXII, poi scomparso. Il quadernetto avrebbe contenuto rivelazioni esplosive che, se note, avrebbero messo in crisi Togliatti e l’apparato comunista italiano. Lo Piparo offre alcune indicazioni, “istruzioni per l’uso”: il quadernetto misterioso potrebbe trovarsi fra le carte di Togliatti e Sraffa. Tenute segrete, celate, irraggiungibili. Sul vero contenuto non ci sono verità assolute se non le ombre del pensiero di Lo Piparo. La sola cosa certa è che si potesse trattare di materiale scottante “di difficile digestione per una mente comunista di quegli anni”.
Quel quadernetto doveva essere tenuto al riparo da occhi indiscreti, a cominciare dal Comintern (la Terza Internazionale) per finire ai compagni italiani. “Ne sarebbe andato di mezzo il destino del Partito”, è stato il commento tranchant di Simonetta Fiori, figlia del grande Peppino Fiori, giornalista della TV italiana degli anni ‘80 nel suo saggio “Il mistero Gramsci”.
Lo Piparo, vincitore del Premio Viareggio con il criticatissimo “Gramsci e i 2 carceri”, resta convinto del suo assunto a conclusione dell’ennesima rivisitazione dei taccuini gramsciani confrontati con una riproduzione fotografica degli anni ’40, sinora sconosciuta.
“Sono stato sbeffeggiato – ha dichiarato – ma io vado avanti e vi dimostrerò che ho ragione” seppur il nuovo libro sia in uscita prima che siano stati resi noti i risultati finali della Commissione promossa dall’Istituto Gramsci per chiarire il “giallo” del presunto quadernetto volatilizzatosi.
Per Lo Piparo, con cui ha collaborato Luciano Canfora, non esisterebbero margini di dubbio. I quadernetti storico-teorico-politici mancherebbero, rispetto alle edizioni pubblicate, di un elemento. Lo Piparo che ha il dente avvelenato fa un’ipotesi: il regista dell’operazione fu Togliatti che a suo tempo si impegnò per la pubblicazione dell’intera opera gramsciana ma l’autore materiale del “delitto” è stato Piero Sraffa che avrebbe ingannato Tania Schucht, la cognata di Gramsci, che dallo stesso Gramsci ebbe l’incarico di salvare i manoscritti facendoli avere “non ai compagni italiani” ma a Mosca alla moglie Giulia, sorella di Tania.
Sraffa, al corrente del contenuto del quadernetto probabilmente conosciuto in un suo contatto con Gramsci alla Quisisana fra il 1935 e il 1937, sapeva che diffondere il contenuto di quel quadernetto sarebbe stata cosa ardita. A maggior ragione non poteva restare nelle mani di chi avrebbe potuto divulgarne il contenuto. Fu a quel punto, fra il 30 giugno e il 1° luglio 1937 a due mesi dalla morte di Gramsci, che Sraffa, giunto a Roma da Londra dove viveva, avrebbe chiesto a Tania di fargli avere tre dei quadernetti che la cognata del martire del fascismo stava maneggiando per la catalogazione. Quei tre quadernetti non sono mai stati restituiti a Tania Schucht. Due di essi sarebbero stati trasferiti a Mosca e uniti agli altri; il terzo sarebbe rimasto fra le carte private di Togliatti. Appunto il XXXII, quello che costituisce il filo conduttore dell’opera di Lo Piparo e che fa dire ora a Giuseppe Vacca, rigoroso storico e massimo studioso di Gramsci: “Il quadernetto mancante? Non mi sono mai posto il problema. Ma l’ipotesi di un Gramsci che abiura alla fede comunista mi sembra fantasmatica”.
E aggiunge: “Mi sono sempre mosso su un altro terreno che è quello dei contenuti. E sul piano dell’evoluzione del lessico e dei concetti, non sono rilevabili salti o buchi. Una volta uscito dalla galera, Gramsci avrebbe voluto andarsene a Mosca, non altrove. Il suo comunismo era eterodosso ma da qui a farne un socialdemocratico…”.
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