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Politica

CON MONTI IL PARLAMENTO TORNA IN PRIMO PIANO

GIANFRANCO FABI - 20/11/2011

 C’è stata una strana atmosfera attorno alla nomina di Mario Monti come successore di Silvio Berlusconi. Strana soprattutto perché di fronte ad una scelta di un esponente esterno alla classe politica, come era stato per l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, si è messa in discussione non tanto l’autorevolezza del nome quanto una certa logica di sospensione della democrazia che deriverebbe dalla nomina a Palazzo Chigi di una personalità che non è passata attraverso una elezione e quindi un giudizio popolare. E così non sono mancate richieste, peraltro indubbiamente legittime, di scegliere invece la strada delle elezioni anticipate sollecitate per esempio da Giuliano Ferrara e da una sostanziosa parte del Popolo della Libertà.

Vi sono tuttavia due elementi da non dimenticare.

Il primo lo ha sottolineato con forza il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: nei prossimi mesi l’Italia deve chiedere il rinnovo di più di duecento miliardi di titoli di Stato che vengono a scadenza. Con le attuali tensioni sui mercati finanziari i rischi sono troppo grossi per lasciare per tre mesi il Paese con un governo dimissionario e con uno scontro aperto tra i partiti per la campagna elettorale: e peraltro senza la certezza che dalle elezioni scaturisca una maggioranza chiara, coesa ed efficiente.

Il secondo elemento è che il governo “tecnico”, come è stato chiamato l’esecutivo guidato da Mario Monti, rientra perfettamente nella logica e nella pratica enunciata dalla Costituzione che prevede che la sovranità popolare si esprima con l’elezione del Parlamento, a cui è riservato il potere legislativo. Il presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo, ma viene nominato dal presidente della Repubblica, e peraltro entra pienamente nell’esercizio delle sue funzioni con il giuramento nelle mani del capo dello Stato. Una volta entrato in carica deve ottenere la fiducia dei due rami del Parlamento entro quindici giorni.

In nessun articolo la Costituzione prevede che il premier e i ministri debbano essere deputati o senatori: anche se in Italia la prassi è quella di governi formati da rappresentanti politici, in altri paesi di democrazia parlamentare (dagli Stati Uniti alla Svizzera) c’è invece una separazione netta e i ministri non possono far parte delle assemblea elettive e se provengono da queste devono dimettersi.

C’è ovviamente una logica politica e istituzionale in queste scelte. Una logica che nasce dalla teoria (definita da Montesquieu nel 1748 nello “Spirito delle leggi”) della separazione dei poteri che sta alla base della formazione degli Stati moderni. Il potere legislativo, cioè il Parlamento, quello esecutivo, il Governo, quello giudiziario dovrebbero essere indipendenti per fare in qualche modo l’uno il controllore dell’altro. Il Parlamento fa leggi, su proposta del Governo o di propria iniziativa, il Governo amministra e quindi fa applicare le leggi, la magistratura sorveglia che i cittadini rispettino queste stesse leggi. La Costituzione italiana prevede che in casi di necessità e urgenza il Governo può varare provvedimenti con validità immediata, i cosiddetti decreti legge, ma questi devono comunque essere approvati entro sessanta giorni dal Parlamento altrimenti è come se non fossero mai esistiti.

Negli ultimi anni c’è stata un po’ di confusione. Il Parlamento ha varato poche leggi di propria iniziativa e pochissime volte ha potuto discutere e intervenire nel merito sulle proposte del Governo. Questo perché lo stesso Governo ha utilizzato ampiamente non solo lo strumento del decreto legge, ma anche quello della richiesta della fiducia, una particolarità tutta italiana che prevede che un provvedimento venga approvato senza la possibilità da parte delle Camere di discutere alcun emendamento.

Ecco quindi che se vi è stato un vulnus alla sovranità popolare questo è avvenuto negli ultimi anni con un Parlamento svuotato dei suoi poteri e delle sue prerogative e non con la nomina di Monti nel pieno rispetto del dettato costituzionale.

Guardando in avanti il Parlamento ha la possibilità di riprendere il proprio ruolo. Di fronte a un governo fortemente impegnato ad affrontare la crisi economica ci sono materie (come la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, l’adozione di nuove e più semplici procedure parlamentari), che possono, anzi devono, essere affrontate in maniera del tutto autonoma.

Per i due grandi partiti e per il terzo polo quindi si allarga l’area delle loro responsabilità. Perché il Paese ha bisogno di coerenti misure economiche per recuperare la fiducia perduta, ma anche di uno snellimento della struttura istituzionale per rendere lo Stato più efficiente e più vicino ai cittadini. Obiettivo quest’ultimo che il Parlamento dovrebbe fare proprio con urgenza mettendo a frutto la volontà unitaria nel sostenere il Governo.

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