… Va bene, è così, come dite voi. Lo sterminio se c’è stato non è di milioni ma di migliaia, forse centinaia, poche centinaia di persone, solitamente ebrei, perché non è nemmeno vero che c’entrino pure gli omosessuali, i testimoni di Geova, gli zingari, i rom eccetera…
Va bene, concesso: non ripetetelo più, per l’amor di Dio; basta. A voi la ragione, la revisione e tutto quanto.
Però… però…
C’è stato quel convoglio – uno, per carità – di vagoni blindati da militari in divisa scura…
Un solo vagone, va bene!
E su quel vagone c’erano delle persone – brutte persone, certo – deportate nell’unico campo di concentramento che riconoscete…
Lo conoscete, no? Bene.
E tra le persone c’erano vecchi, bambini… d’accordo? No? Okay, vecchi vecchi non ce n’erano… Solamente quel bambino, okay, con suo padre…
Quel bambino stava col suo papà, appoggiato, seduto nella penombra sul lurido legno della carrozza che si era appena spostata partendo dalla stazione centrale. E quel bambino si faceva stringere dalle braccia di quell’uomo condotto lì dal suo cognome, standogli tra le gambe ed avvertendo quella forza che lo congiungeva a sé e gli infondeva, ancora per poco, la certezza dell’onnipotenza del suo papà, grande e grosso papà, che tantissime volte l’aveva abbracciato donandogli certezze e promesse di difesa, di rifugio dai piccoli mali che egli cominciava a comprendere teneramente.
E quel papà, che poteva allora sussurrare negli orecchi sensibili del piccolo spaventato dal male così grande e che mai, mai avrebbe potuto capire?
Perché mai, mai si sarebbe potuto capire quel male che nessuno, neanche un gigante poteva considerare reale nella sua enormità, nella sua assurdità.
Quel papà stringeva, coccolava quel corpicino precipitato dentro l’abisso, trascinatovi dalle braccia più forti che si sarebbero potute pensare e che, d’improvviso, cedevano sotto la spinta delle braccia di qualcuno che nemmeno nella fiaba più cruda, più tragica, si sarebbe potuto trovare ed immaginare. Quel papà si era preoccupato di non rivelare, leggendo racconti, che quei mostri descritti dentro la storia potevano non essere sempre sconfitti, potevano non finire sempre per soccombere e perire quando si scontravano col bene e con i bravi bambini, i quali non avevano colpe se si comportavano da persone responsabili. Ma adesso, che colpa aveva suo figlio per venire colpito così? Quale responsabilità poteva aver evitato?
Cosa sussurrerà papà a quel bimbo?
Quel viaggio finirà? Non importa. Ciò che preme è che quell’abbraccio potrebbe finire…
Dovrò lasciarti da solo figlio mio? Dovrò smettere di volerti bene? Per sempre… Perché?
Che posso fare? Che cosa devo dirti, bimbo mio? Che ci separeranno? Sì, ci separeranno!
Non ho parole, soltanto lame che si infilano ovunque se cerco di mettermi dentro quella storia; quella dove qualcosa mi impone di dire delle parole, che non trovo poiché l’angoscia mi attanaglia, la condizione è sopra ad ogni possibilità di raziocinio, mi cede l’animo, non sono più un uomo…
Capisco, capisco perché dentro quelle carrozze regnavano silenzi, così gravi da sospendere l’intero creato, da fermare l’esistenza su una pagina detta favola, mica vera, trascurata quale carta annerita, bruciata, su cui vomitare Dio.
Dio, Dio mio, l’hai abbandonato? C’è quel bimbo con te, vero? Quel bimbo, mio figlio, quel mio piccolo dolce Davide… È lì? Non disturbarlo, no! Ti prego, digli solo… che è stato un bravo ometto… poi, bacialo: non ho potuto farlo più…
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