Mario Monti, se confermato Presidente del Consiglio dei Ministri, dovrà lavorare con il Parlamento di prima e con i partiti che non hanno voluto attuare le riforme necessarie, portando l’Italia in fondo alla classifica dei Paesi disastrati.
Il suo compito sarà più facile e produttivo se i cittadini avranno imparato la lezione che alla radice della crisi nazionale ci sono diffuse responsabilità collettive che non possono essere risolte con i presunti “poteri salvifici” di una sola persona.
Nel 1994 gli italiani, per le note ragioni, hanno voltato le spalle ai partiti che sono gli strumenti della democrazia e della partecipazione e hanno dato la delega ai capi carismatici, riconosciuti tali non alla fine di un ragionamento ma per un impulso emotivo che li ha portati a credere nei “carismi”, cioè nei doni naturali di alcuni leader.
Tuttavia i carismi, diceva il sociologo Max Weber, non sono permanenti e vengono meno quando le profezie e le promesse enunciate non si avverano. Qui sta il punto della questione. Il problema non coincide più con Berlusconi e Bossi ma riguarda il loro elettorato, in gran parte proveniente dall’area moderata che votava per la Democrazia Cristiana, che ora potrebbe tornare in libera uscita.
Il rischio è reale ma minore per la Lega che può contare su una residua idea di localismo a cui il suo elettorato è ancora sensibile, ma il Popolo della Libertà deve vincere la scommessa di trovare un’identità distinta da quella di Berlusconi. Ce la farà?
È venuto al pettine il nodo centrale del falso bipolarismo all’italiana che è stato sin qui giustificato dalla necessità di assicurare la governabilità del Paese ma che non è mai realmente esistito e ha degradato la politica ad uno scontro emotivo di fazioni.
Nessun soggetto politico è stato in grado di dimostrare di avere in mano la ricetta giusta per risanare materialmente e moralmente il Paese; dopo quasi vent’anni siamo al punto di prima, cioè alla crisi.
Il governo guidato dell’economista varesino è una soluzione valida, intelligente, forse provvidenziale ma chiaramente provvisoria. E dopo ci sarà l’alternativa? È possibile che, alle prossime elezioni, vinca il centro-sinistra per i demeriti dell’avversario, ma potrà anche governare? Le due precedenti esperienze di Prodi, mandate all’aria dalle insanabili divisioni, dimostrano il contrario.
Potrebbe, come avvenne nel 1994, nascere qualcosa di diverso e di non previsto. In questo momento una forza nuova, differente dalle ossificate classificazioni di destra e di sinistra che appartengono ad una realtà storica superata, costituirebbe un polo di attrazione.
Dopo lo scontro ideologico del Novecento, che ha costituito una frattura non ancora ricomposta, la vocazione della maggioranza degli italiani è al “centro”, inteso non come spazio di mediazione, ma di innovazione, con un alto grado di discontinuità con il passato. L’occasione sarebbe potuta essere il Partito Democratico se fosse riuscito, attraverso una elaborazione culturale e una coerente azione, a superare l’esperienza della società post-fordista e a proiettarsi nella post-modernità. Invece questo salto di qualità non c’è stato ed è tuttora d’impaccio l’alleanza con la sinistra massimalista, radicale e populista.
Se dai promotori del convegno di Todi scaturisse una proposta di partito, fedele all’ispirazione cristiana ma autonomo dalla Chiesa gerarchica, potrebbe affermarsi intorno ad un programma e ad un nucleo di persone competenti ed oneste.
Non siamo ancora riusciti a superare la lunga transizione volta alla ricerca di un assetto politico realmente adeguato ad una società globalizzata e ad un mondo interconnesso che fino ad ieri non c’erano.
Il governo Monti è un buon inizio, rivela che c’è un’Italia migliore non completamente rispecchiata nelle istituzioni pubbliche.
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