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Storia

LA SHOAH È ANCHE ITALIANA: NON DIMENTICHIAMOLO

FRANCO GIANNANTONI - 01/02/2013

Deportati al binario 21 della Stazione Centrale di Milano

La Shoah è anche italiana. Ci riguarda da vicino. Senza la collaborazione di prefetti, questori, podestà, amministratori di beni privati, funzionari di banche, sarebbe stata di dimensioni più limitate.

È il 27 gennaio 1944. Dal Comando SS di Milano presso l’Hotel Regina giunge alla Questura di Varese l’ordine di rastrellare gli ultrasettantenni e i malati gravi ricoverati negli ospedali. Fino a quel momento erano stati ignorati.

L’Ospedale di Circolo, il “Filippo Del Ponte” e la Casa di cura “La Quiete”, con la preziosa collaborazione di alcuni medici varesini, avevano nel frattempo accolto ebrei, in attesa che la bufera passasse. Erano uomini e donne che, sfuggiti alle prime retate, per la loro età e le precarie condizioni fisiche, non avevano potuto affrontare la rischiosissima e faticosa impresa di passare in Svizzera con i loro familiari.

Theodor Saevecke, il comandante SS della Lombardia, “l’Hitler di Milano”, reduce dalle imprese sul lago Maggiore dove con la “Grenadier Panzer Division Adolf Hitler” aveva preso parte al massacro, fra Arona, Lesa e Meina di cinquantaquattro ebrei, aveva deciso di andare sino in fondo. Sterminare, come aveva fatto sapere in altra circostanza il comandante della II° Legione della Milizia Confinaria Marcello Mereu, “quei maledetti figli di Giuda”.

L’operazione é studiata in ogni particolare. Il questore di Varese Antonio Solinas si mette prontamente a disposizione. Gruppi di agenti affiancano le SS. Non si perde tempo. L’appetito dei boia è piuttosto elevato. La prima operazione, il 29 gennaio, è all’Ospedale di Circolo, dove due pazienti ebrei sono sorpresi nella loro cameretta mentre un altro gruppo viene sottratto in extremis ai carnefici dall’intervento dei medici e delle religiose guidati dal direttore sanitario professor Ponticaccia e nascosto nel reticolo degli scantinati. Girolamo Segré, un commerciante di settantatre anni e Giuseppe Jabes, un pensionato nato al Cairo, di sessantotto anni, ammanettati, portati in Questura presso il Palazzo Littorio, identificati, sono trasferiti a Milano. Del primo si ignora la sorte. Del secondo si sa che dopo un breve soggiorno al carcere di San Vittore, il 30 gennaio è deportato nel campo di sterminio di Auschwitz dove è gassato il 6 febbraio 1944.

Le SS battono ogni luogo dove possano essere ricoverati ebrei, ricoveri per anziani, dormitori pubblici, canoniche dei preti di montagna che si sono prestati a un’opera di salvataggio spesso riuscita.

Michele Vitale, milanese, quarantacinque anni, figlio di una coppia “mista”, senza una gamba, malato di epilessia, giudicato dai sanitari e dalla stessa polizia intrasportabile, viene ammanettato, trasferito a Milano, poi nel campo “di smistamento di polizia” di Fossoli-Carpi e infine ucciso ad Auschwitz il 23 maggio 1944 a una settimana dall’arrivo.

Con le SS si muovono in questa odiosa caccia anche i professionisti dello sterminio. Alla “Quiete” giungono improvvisamente dal Comando “Litorale Adriatico” di Trieste, zona sotto il controllo del Reich, condotti per mano da agenti di Pubblica Sicurezza di Varese, Franz Stangl e Mauro Grini. L’azione è particolare, la preda una ragazza ebrea certamente ospite della struttura ma “al sicuro”, non facilmente riconoscibile. Il primo, Stangl, è un pezzo da novanta, ex comandante del lager di Treblinka in Polonia, responsabile della Sezione “R3” dell’Einsatz Kommando” (le prime eliminazioni con il gas su automezzi), cervello del setacciamento ebraico nel Nord Italia (catturato in Brasile nel 1961 dagli agenti israeliani, morirà in carcere); il secondo è un delatore, traditore della sua gente, di origini ebraiche (Grun) che i nazisti prima della Liberazione faranno sparire nella Risiera di San Sabba per celare le tracce dei loro misfatti.

I due sono “in missione”. Dopo aver arrestato alla Casa di Cura “L’Abetina” di Sondalo in Valtellina, l’ebreo Salvatore Vivante, ventidue anni, di Venezia, malato polmonare (deportato ad Auschwitz il 30 gennaio e scomparso nel mese di marzo), piombano, ossequiati e rifocillati, alla Questura di Varese. Devono mettere le mani su Paola Sonino, una bella e ricca signorina veneziana, di ventinove anni che usa trascorrere lunghi periodi di riposto nella Casa di Cura coi genitori che sono già da giorni, temendo il peggio, al sicuro in Svizzera. Lei no. Non ha voluto seguirli. Spera che quella Casa di Cura di proprietà dei Riva, medici svizzeri, sia un’isola felice, goda come si ritiene, sbagliando, di una sorta di extra-territorialità.

Paola, trascorre le sue giornate nella camera n. 43 al terzo piano del palazzo da cui si domina la rigogliosa campagna di Casbeno sullo sfondo del lago. Poco più in là, nello stesso corridoio, soggiorna, in attesa di raggiungere Lugano, la contessa Carolina Ciano, la madre di Galeazzo, il marito di Edda Mussolini, fucilato l’11 gennaio 1944 al Poligono di Verona. Malgrado la tragedia, l’ordine del duce al Capo della Provincia Mario Bassi, è, dopo aver concorso con la sua pavidità alla morte del figlio, di rispettarla “perché ha già sofferto troppo”.

È il 29 gennaio (esattamente 68 anni fa!!), un sabato, quando alla direzione della Casa di Cura si presentano due funzionari della polizia varesina. Mostrano un foglio con l’ordine tedesco di consegnare immediatamente Paola Sonino e il medico Arturo Serena, varesino, “piantonato” dopo aver subito un intervento chirurgico.

Stangl e Grini sono in Questura a sorseggiare un tè caldo. Il dottor Serena, informato della “retata”, con uno stratagemma, riesce a fuggire. La ragazza, sebbene si presenti come “infermiera” per confondere le idee, con un bel camice azzurro, non ha scampo. Cade nella trappola. Si arrende. Prepara una valigia con poche cose, scrive due lettere ai genitori e a un’amica, non ritira il denaro dalla cassa, consapevole che non le servirà più (mi ricostruirà la drammatica scena l’amministratrice Alda Brocca l’8 settembre 1983).

Dopo un breve soggiorno ai Miogni di Varese, il giorno dopo Paola Sonino parte per Auschwitz dove sarà assassinata. I controlli alla “Quiete” danno altri frutti: sono arrestate Sofia Schreirer, quarantanove anni, di nazionalità russa (deportata ad Auschwitz il 30 maggio da Fossoli) e Rosa Egert Fischer, cinquantaquattro anni, polacca (deportata il 5 aprile).

Non è finita perché sempre il 29 gennaio vengono sorpresi Pia Della Torri, sessantaquattro anni, livornese e il marito Isaac Yeni, greco di Salonicco di settantacinque anni ed Iginia ed Emilio Fiorentino, di settantadue anni, livornesi. Pia Della Torri muore con il marito ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Iginia Fiorentino è prigioniera dell’inferno di Auschwitz dove è gassata il 6 febbraio 1944 con il marito.

Non abbiamo purtroppo altri dati. Scompare anche una contessina ebrea, ospite di una festa danzante all’Hotel “Europa” davanti a Palazzo Estense.

La caccia agli ebrei continuerà nei mesi successivi. Varese è una calamita e ne riceverà molti da tutt’Italia. Il confine è a due passi e più facile da superare rispetto al Novarese, al Comasco, alla Valtellina.

A maggio saranno colpiti i “misti”, gli ebrei coniugi di ariani e i loro figli. Clara Pirani, Ada Provenzali Bianchi, il maresciallo del Regio esercito Leone Tapiero. Finiranno ad Auschwitz.

A Varese e sulla fascia di confine, il “viaggio della speranza” per decine di loro si concluderà nelle reti tese dagli aguzzini e dei loro complici. A maggio affinché il risultato sia garantito, il governo di Mussolini emetterà il decreto della “Zona Chiusa”, una trappola lungo la frontiera, dal Novarese alla Valtellina, della profondità di tre chilometri, dentro cui far cadere gli ultimi irriducibili.

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